«Nemico dei mafiosi bandito per Io Stato di Francesco La Licata

«Nemico dei mafiosi, bandito per Io Stato» Alfonso Sacco ricorda la lotta contro le cosche insieme con i quattro fratelli: «Eppure ci hanno dato l'ergastolo» «Nemico dei mafiosi, bandito per Io Stato» «Volevano la nostra terra, ci siamo difesi ma senza crimini» Ora ha scritto la sua autobiografia: «E' come un romanzo» AGRIGENTO DAL NOSTRO INVIATO A vederlo così, piccolo e curvo, le gambe malferme, con quegli occhi indifesi, il sorriso mite dei vecchi sereni, impacciato ma incuriosito per d'interesse verso la mia personal; a vederlo, con le mani intrecciate in grembo, nessuno crederebbe al romanzo della sua vita. Alfonso Sacco, 87 anni, «figlio di Raffadali», contrada del profondo Agrigentino, è l'ultimo superstite di una ban^a che negli Anni Venti fece molto parlare di sé in Sicilia. La cronaca ufficiale ne ha sempre accreditato l'immagine di banditi violenti e saccheggiatori. Lui, adesso, racconta la sua. E lo fa quando ha ormai poco da guadagnarci, «per senso di giustizia, più che per altro». Racconta i suoi 37 anni trascorsi in carcere, i 12 di segregazione, la lotta contro i fascisti e i mafiosi che taglieggiavano i poveri contadini. Racconta la vera storia della banda Sacco, i cinque fratelli di Raffadali che divennero fuorilegge per essersi opposti «con la forza, è vero, ma non c'era allora altra alternativa», all'arroganza e allo strapotere di campieri e gabellotti mafiosi che si arricchivano «con la copertura di un regime che non voleva opporsi». Alfonso Sacco ha scritto tutto in 106 fogli, ora cerca qualcuno che glieli pubblichi. Seduto vicino alla moglie, Pi- na Crapanzano, il vecchio apre il libro dei ricordi. «Era una bella famiglia la nostra. Mio padre, Luigi, viticoltore. Mia madre, Nina, badava a noi figli: cinque maschi e una femmina. Lavoravamo dall'alba al tramonto, senza sosta. Le cose cominciarono ad andare benino. E magari proprio per questo arrivarono i guai. I mafiosi misero gli occhi sulla nostra terra: rubavano il raccolto, chiedevano soldi e se non glieli davi ti bruciavano il grano o azzoppavano gli animali. Che potevamo fare se non resistere, anche con le armi? Io e i miei fratelli, Vanni, Salvatore, Vincenzo e Girolamo, ci munimmo di permesso di fucile e facevamo la guardia a turno. Cacciavamo i malan¬ drini a fucilate. Non era facile, neppure per mafia e fascisti, intimidire cinque fratelli, tutti giovani e lavoratori». Ma non fu una sparatoria a mandare all'aria la famiglia Sacco. «Volevano la nostra terra, ma capivano che non l'avrebbero avuta con la forza. Allora ricorsero all'astuzia: simularono una rapina, il furto di quattro vacche a un signorotto e accusarono mio fratello Vanni. Inutile dire come si svolsero le indagini, il processo. Mafiosi e fascisti erano d'accordo col maresciallo dei carabinieri. Vanni si diede alla macchia». E gli altri? «Continuammo a lavorare e a lottare fino a quando si presentò il solito maresciallo che voleva che conse- gnassimo le armi. Io gli dissi: se ci togli i fucili qui in due giorni ci ammazzano tutti. Ma lui non ne volle sapere, inoltre pretendeva che gli consegnassimo Vanni. Continuammo a tenere i fucili senza il permesso: in pratica ci costrinsero alla macchia. Tre anni durò quella vita: dormivamo nelle grotte, mangiavamo in casa dei contadini. Sì, perché sia chiaro, noi non rubavamo e il popolo ci amava, ci nascondeva. Senza l'appoggio della gente non avremmo resistito neppure un giorno». Tre anni di latitanza durante i quali i Sacco furono accusati di tutto ciò che accadeva nella zona. Anche dell'omicidio del capomafia di Raffadali, don Peppino Cuffaro. «I carabinieri incolparono noi. Erano i tempi in cui la mafia godeva dell'impunità e al loro posto andavano in carcere i piccoli, i disperati». Arrivò l'ergastolo, per lui, per Vanni e per Salvatore. Vincenzo fu condannato a vent'anni, Girolamo a quattro. «Ci presero il 16 ottobre dei 1926. Ci spararono addosso, uccisero uno dei miei compagni. Io rimasi ferito e anche mio fratello Vanni. Ma noi un colpo contro i carabinieri non lo sparammo, furono loro a usare poi le nostre armi per accusarci di conflitto a fuoco. Quando ci portarono in carcere, dietro al cellulare trainato dai cavalli c'era tutto il paese. E c'era anche lei che era una bambina». Guarda la moglie, poi ripren¬ de: «Chi l'avrebbe mai detto che, dopo 37 anni; avrei sposato quella ragazzina con la quale ci eravamo scambiati solo uno sguardo mentre andavo verso la morte civile?». Don Alfonso ha girato i penitenziari di tutta Italia: Agrigento, Palermo, Noto, Portici, Poggioreale, Saluzzo, Campobasso. E l'isola di Santo Stefano. «Qui sono stato in segregazione per 12 anni. Per non perdere la parola leggevo i libri ad alta voce, ma i secondini non volevano. Meno male che avevo imparato a leggere. A Santo Stefano conobbi il senatore Umberto Terraccini che era deportato politico per la sua attività di antifascista. Altri intellettuali mi abituarono a leggere. Pensavo: è finito l'impero romano, è finito Napoleone, finirà anche Mussolini». Cadde il fascismo ma i Sacco non lasciarono il carcere. «Concessero la revisione dei processi a tutti i peggiori mafiosi, ma non a noi. Io non volevo chiedere la grazia, mi convinse, molto tempo dopo, il senatore Terraccini». I Sacco tornarono liberi nel 1963. La mafia? «Non ho paura di loro. Colpiscono chi li teme. L'unico modo per combattere i mafiosi è quello di non averne timore. Vedete cosa ha combinato quella povera madre della signora Casella? E' riuscita a agitare un pantano immobile da anni. Tutti dovremmo fare come lei». Francesco La Licata Aifonso Campo insieme con la moglie: «La vidi per la prima volta quando mi arrestarono, era una bambina»