Il Talleyrand rosso di Aldo Rizzo

Da uomo della guerra fredda alla distensione Stalin lo scelse perché era obbediente Il Talleyrand rosso Da uomo della guerra fredda alla distensione Stalin lo scelse perché era obbediente E' fin troppo facile dire di Andrej Gromyko che è stato il Talleyrand della rivoluzione sovietica. Ha servito il potere di Mosca sotto Stalin, Krusciov e Breznev; e ha fatto in tempo a proporre, proprio lui, l'uomo nuovo, Michail Gorbaciov, alla guida del pcus, diventando per tre anni presidente del Soviet Supremo, in pratica il capo dello Stato. Poi il rapido declino e l'uscita di scena, quando ormai la morte era vicina. E' stato un personaggio d'eccezione. Per un quarto di secolo, nell'altalena dei rapporti tra le due superpotenze, decisivi per il resto del mondo, la parte sovietica è stata rappresentata dalla sua figura tozza e grigia, apparentemente immutabile. Nel frattempo, alla testa della diplomazia americana si sono. avvicendati i personaggi più vari: Dulles, Herter, Rusk, Rogers, Kissinger, Vance, Muskie, Haig, Shultz; in rappresentanza di sette Presidenti, da Eisenhower a Reagan. Nessun diplomatico di questo secolo ha potuto lontanamente vantare un'analoga esperienza. E c'era stato un prologo, tutt'altro che irrilevante. Infatti Gromyko è già un protagonista, nei rapporti Usa-Urss, nel 1943, quando diventa ambasciatore a Washington, da dove si trasferisce nel 1946 a New York, come capo della delegazione sovietica all'Onu. Aveva rispettivamente 34 e 37 anni. Un prologo tutto stalinista. Quando diventa ambasciatore a Washington, prende il posto di Maksim Litvinov, l'ex Commissario agli Esteri «filo-occidentale», l'uomo della Società delle Nazioni e della paziente trama diplomatica con le democrazie, poi sostituito da Molotov, che si sarebbe accordato con Ribbentrop e Hitler, mettendo in atto il più spregiudicato e torbido voltafaccia di Stalin. Litvinov a Washington era servito a Stalin per ingraziarsi Roosevelt; ma probabilmente non se ne fidava più: meglio un giovane funzionario ossequiente, entrato in carriera solo quattro anni prima. Dunque l'uomo della guerra fredda. E tre anni dopo, all'Onu, l'uomo del «niet». Per ben ventisei volte, dal 1946 al 1948, il Consiglio di sicurezza fu paralizzato dal suo implacabile veto. A un giornalista che insisteva per un'intervista «privata» (che cosa si nascondeva in realtà dietro un simile personaggio?) rispose: «La mia personalità non m'interessa». Così, quando poco dopo cam- biò sede, diventando ambasciatore a Londra, i giornali inglesi si chiesero con molta preoccupazione che cosa «Mister Niet» fosse andato a fare nella capitale britannica. Lui li sorprese presentandosi in «tight» e cilindro a Buckingham Palace per le credenziali. Disse che arrivava «in missione di pace». Parole ovvie, ma solo in apparenza. In realtà, la Russia tardo-staliniana cominciava a differenziare la sua diplomazia, esplorando la possibilità di mettere un cuneo tra Europa e America. Gromyko era l'uomo giusto anche per questo. E quando Stalin morì, e cominciarono i primi vaghi contatti tra Est e Ovest per un futuro un po' più rassicurante, era ancora lui, a Londra, a rappresentare l'Urss a una riunione sul disarmo. Poco dopo, Krusciov, il nuovo arrivato, lo nominò ministro degli Esteri. Da uomo della guerra fredda a uomo della distensione, del primo tentativo di distensione, che sarebbe continuato anche con Breznev, per un certo tem¬ po. Era un puro esecutore degli ordini altrui, oppure lui stesso, dopo un'esperienza già lunga e importante di contatti diretti con l'Occidente, si era reso conto della necessità di un dialogo? Si schermì dicendo: «Per quanto riguarda l'Urss, esiste una sola logica negli affari esteri: la logica di ciò che è meglio per l'Urss». Ma, appunto, passare da un confronto senza sbocchi a un dialogo, sia pure difficile, poteva essere meglio per l'Urss. Degli anni del dialogo, conservo il ricordo di un Gromyko abbastanza amabile con noi giornalisti, nei grandi alberghi di Ginevra o di Vienna, dopo gli incontri con i vari segretari di Stato americani. La sua professionalità «russa», che resisteva per tutto il tempo delle dichiarazioni ufficiali, si scioglieva al momento del commiato, con brevi battute cordiali, in inglese, che significavano che si restava pur sempre su un terreno comune, che un certo essenziale discorso continuava, anche quando le dichiarazioni in russo non erano state incoraggianti. Prima di morire, ha fatto in tempo a pubblicare le sue memorie, anche in Occidente, anzitutto attraverso il settimanale inglese «The Observer». Ne emerge come un «centrista» dell'Urss, non abbastanza coraggioso o potente per contrastare le spinte estreme, ma certamente propenso alle soluzioni mediane. In un'intervista al direttore del settimanale, si rivelava (o si confermava?) anche un personaggio cordiale, discorsivo. All'avvento di Gorbaciov «non c'erano alternative». Breznev «aveva le lacrime facili, forse perché beveva molto». Krusciov era «un uomo di straordinaria intelligenza e di forte volontà», ma «le sue capacità non erano sostenute da una solida istruzione». E Stalin? «Possedeva una qualità straordinaria: quella di conservare i segreti. Aveva a disposizione un intero sistema per nascondere i fatti». Il suo primo ricordo: «A 5 o 6 anni, avevamo una cavalla, di proprietà di mio padre, e un puledro. Un mattino mi svegliai e scoprii che il puledro era stato divorato dai lupi». La sua principale qualità fisica: «Sono un buon nuotatore. Ho imparato a nuotare nell'acqua come un pe sce». Gli è servito per più di quarant'anni, fino all'avvento di Gorbaciov, e all'incalzare del tempo. Aldo Rizzo