Lo zar di Kabul non cede di Mario Ciriello

Lo zar di Kabul non cede Anche senza i sovietici, Najibullah è saldo in sella: ora propone un «governo di conciliazione nazionale» Lo zar di Kabul non cede Un'amara sorpresa per Usa e Pakistan LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE E' un altro capitolo da aggiungere alla voluminosa storia delle previsioni sbagliate. Chi credeva, nel febbraio scorso, nella sopravvivenza del presidente dell'Afghanistan Najibullah? Certamente nessuno. Neppure il Cremlino, il suo grande sostenitore,che tenacemente l'aveva protetto per anni e a costi elevatissimi. I russi lasciavano Kabul e la città pareva un frutto ormai marcio pronto a cadere nelle mani capienti dei mujaheddin: Gli occidentali fuggivano, i diplomatici chiudevano le loro ambasciate, spiegavano ai giornalisti che la capitale si sarebbe inevitabilmente trasformata in un campo di battaglia. Molte erano le incertezze sul futuro dell'Afghanistan, ma non c'erano dubbi sull'imminente caduta di Kabul, la capitale, e del suo «zar rosso», Najibullah. E' finito l'inverno, è passata la primavera, è giunta anche l'estate: e Najibullah è sempre lì, al suo posto. A Kabul non si combatte più, anzi è tornata una parvenza di normalità. Washington riconosce di aver commeso molti errori, ammette di aver sottovalutato Najibullah e di aver sopravvalutato, al contrario, i mujaheddin; e allora fa capire di non essere più ostile a una «intesa politica». In giugno, alla fine dei loro colloqui a Washington, George Bush e Benazir Bhutto si sono trovati d'accordo sulla necessità «di esplorare qualsiasi strada, purché seria, capace di condurre a una soluzione di un conflitto dimostratosi senza soluzione». Un fatto è certo. Si spara di meno e si parla di più. E' una pace fragile, lacera, interrotta da sussulti sanguinosi, ma non è guerra. Si spara di meno, anche perché la grande offensiva contro il governo è fallita. Somme enormi hanno speso Stati Uniti e Pakistan per finanziare l'attacco dei guerriglieri contro Jalalabad, nella scia del ritiro sovietico. Il piano aveva una sua logica che pareva inoppugnabile. I soldati di Najibullah, privi dell'alleato russo, non se la sentivano più di combattere; Jalalabad avrebbe presto innalzato bandiera bianca; e, dopo Jalalabad, nulla avrebbe salvato Kabul. Ma il grande disegno strategico si è rivelato ingannevole. Due mesi è durato l'assedio di Jalalabad, ma la città non s'è arresa, molte unità di mujaheddin hanno abbandonato la zona. Questa, dunque, la prima amara sorpresa per l'Occidente: Najibullah non è un soldatino di piombo. Secondo choc, soprattutto a Washington: alcuni movimenti antigovernativi non sono affatto filo-occidentali. Odiano l'America e tutto ciò che rappresenta con furia quasi khomeinista. Il più potente di questi gruppi, il Gulbuddin Heckmatyar, che ha ricevuto dal Pakistan la parte del leone, è un vulcano di fondamentalismo, accomuna Washington e Mosca nella sua xenofobia incandescente. Un inviato del «Financial Times» descrive le paure delle giovani donne di Kabul, soprattutto delle studentesse. Se arriveranno i mujaheddin — dicono — dovremo abbandonare ogni ambizione, fuggire forse. «Chi vorrà vivere nella fortezza medievale del Gulbuddin Heckmatyar?». Najibullah sfrutta queste paure. La sua radio ripete: «Non dimenticate. Negli Anni Sessanta, fu il Gulbuddin a lanciare vetriolo sul viso delle donne senza velo all'Università di Kabul». Non esagera: e, comunque, l'estate scorsa, quando annunciarono la formazione di un governo provvisorio, i mujaheddin decretarono la separazione dei sessi, con le donne confinate nei loro ginecei o occultate tra le mille pieghe dei loro austeri burqa. Queste paure e mille altre: e non soltanto quelle degli afghani nei territori sotto il controllo governativo. Molti mujaheddin temono, ad esempio, d'essere neri strumenti dei loro leader in Pakistan. Ad essi, Najibullah promette autonomie locali, riforme agricole. C'è già chi ha cambiato padrone, chi s'è messo al soldo di Kabul. Najibullah è scaltro, gioca bene le sue carte. Offre adesso un ampio governo di coalizione, indipendente, nazionalista, un embrassons-nous istituzionalizzato, afferma che le ferite afghane restano aperte soltanto perché Stati Uniti e Pakistan continuano ad armare e a finanziare la resistenza. Accetta persino la necessità politica di una parziale islamizzazione, manda i suoi ministri a pregare in moschea. George Bush e Benazir Bhutto seguono quest'evoluzione, attendono, esplorano. Le informazioni da Washington indicano che il Dipartimento di Stato accetta l'idea di un nuovo cocktail governativo, ispirato al pluralismo: ad una condizione, però. Che non sia diretto né da Najibullah né dai suoi collaboratori più stretti. Il leader se ne deve andare. Ha un curriculum vitae di sangue, Najibullah. Fu capo della polizia segreta, ha sempre usato la sferza, i suoi uomini hanno imprigionato, torturato e ucciso migliaia di afghani. Oggi porge ramoscelli di ulivo, ma troppi ricordano la sua crudeltà, la sua macchina del terrore. E' questo suo passato a impedirgli di conquistare la fiducia dei nemici e degli amici. Mario Ciriello I guerriglieri islamici all'assedio di Jalalabad