Abbaglianti luci mentali

Abbaglianti luci mentali LA TORINO METAFISICA DEI FABBRICATI INDUSTRIALI Abbaglianti luci mentali «Eppure Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante non solo d'Italia ma di tutto il mondo» (Giorgio de Chirico) In Inghilterra, Scozia, Irlanda l'incanto per le rovine era cosi sentito nel Settecento che la bizzarria di quel popolo ne fabbricava di finte per arredare i giardini. Il fascino dell'abisso, delle vestigia, dei detriti, della morte ha accompagnato anche gli albori del Cinematografo, dove si avvertì subito la buona quotazione che avrebbe avuto il piacere della distruzione fin dalle scene di Intolerance di OriJJìth nel 1916. Subentrata alla morte di Dio, la Tecnologia ha eretto le sue cattedrali: fabbriche e opifici. Il loro crollo o disuso rimbomba ora nell'eco della filosofia delle rovine e il suo pensiero umbratile scandaglia retrattile nella burrasca di quelle macerie. E lo spazio dedicato alla pittura metafisica nella Mostra del Novecento italiano a Palazzo Orassi richiama la carica enigmatica di fatalità e premonizione che cola dalle geometriche architetture di piazze e opifici torinesi. (Sembra una buona occasione per mettere fine alla leggenda di Torino città esoterica e dello spiritismo, non fosse perché c'è più mistero nell'ombra di un palazzo che in una camera buia durante una seduta spiritica). Ma tornando al fardello di rivelazione e profondità emanato dagli edifici, ci si è mai chiesti perché più essi sono materiali (fabbriche, officine in funzione o dismesse) più sono metafisici? Come ogni città industriale, Torino offre un buon campionario di casi per rinfrescare l'interrogativo. Un itinerario ben fornito e blasonato è quello che partendo dal ponte Isabella costeggia le eleganti palazzine Fiat di Corso Dante, svolta in Via Madama Cristina lungo la Microtecnica. Si porta obbligatoriamente su Via Nizza (Lingotto e RTV) raggiunge Corso Raccontai occhieggiando alle Caserme e passaggi ferroviari. In borgo San Paolo può far bottino di fabbriche e fabbrichette (Lancia, Italgas, Fergat eccetera) e sbucato in Corso Svizzera corre (senza tralasciare la Parocchi di Via Pianezza) tranquillo sulla sopraelevata di Corso Mortara e si gode lo spettacolo possente della Mazzonis, Teksid, Savigliano. Una buona conclusione del giro tra questa oreficeria gulliveriana può essere il Cimitero Centrale dopo aver zigzagato tra ciò che somministrano i bordi dei Corsi Vigevano e Novara: la Ceat di Via Leoncavallo, la Nebiolo, l'Enel di Via Bologna. Quanto basta per vederne di tutti i buchi e constatare come l'edilizia di fabbrica abbia una totale indipendenza stilistica perché ubbidisce a leggi proprie. Fatta eccezione a quando essa è chiaramente floreale, direi che prevale una severità di timbro gotico, dentro il quale però si fa largo e alto un po' di tutto: passerelle, ponti, scale esterne, congiunzioni, ringhiere, schermature, torrette, protezioni, barriere, bocche, voragini che urlano, trasparenze da enfisema e una ripetitività di temi, specie finestre tutte uguali e sguarnite e pareti così alte e possenti da esser sospette, indiziarie. Ma è un'edilizia che non necessariamente deve scm- pre ispirare solidità. Anzi essa spesso è aerea libera abusiva inventiva, senza schemi. Inventa. Improvvisa. Ben più ancorata è quella cimiteriale che sempre mima il monumentale (anche in miniatura) per l'austerità del luogo (la tomba è la vera casa per sempre). O quella ospedaliera che andava in coppia a quella scolastica per la funzione di custodia e governo del corpo e dell'anima. Senza bisogno di scomodare lo spirituale o l'ai di là delle cose fisiche o Val di sopra della realtà della metafisica nell'arte, può essere che le leggi proprie e l'indipendenza dell'edilizia di fabbrica siano partite, affermandosi, con l'emancipazione dalle secolari leggi dei materiali sprigionata dall'avvento del cemento armato, dopo il preludio del metallo e della ghisa (stazioni ferroviarie e Tour Eiffel). Fatto sta che come ci sono più enigmi nell'ombra di un uomo che cammina che in tutte le religioni, così la fatalità dell'arco architettonico, il presagio delle arcate, quel qualcosa di incompiuto che esse lasciano presentire, i geyser e gli accumulatori di lirismo che sprizzano dalle geometrie architettoniche, l'anello di azzardo e precarietà che circonda un opificio, il suo carattere di apparizione, sono gli enigmi metafisici raffigurati da De Chirico che tanto si ispirò a Torino. In parte è una risposta al paradosso della spiritualità racchiusa nella materialità di una fabbrica. Ma è ancora un'intuizione artistica. Manca la frittura filosofica. Per avere questa occorre spostarsi e sporgersi sulle rovine, le macerie, le aree dismesse e l'anonimato che le avvolge come rinchiuse dalla vergogna. Nell'edificio officina il passante aveva già avvertito che la materia di cui sono fatte era diventata assorta e si era trasformata ed era fuggita in un'astrazione, che la gravità, il peso della materia si ripartiva altrove, nella forza del suo arbitrio e del suo senso precario. Vedendola ora in disuso, deserta, pericolante, avverte la malinconìa e come un'estetica nuova della rovina stessa. Le parti palesano la loro inimicizia Congedo, assenza, le rovine industriali, tombe spalancate e sarcofagi scoperti, assumono il fascino del declino e sono la rappresentazione visuale, la drammatizzazione scenica delle rovine della metafìsica, del Dio caduto, del nichilismo. Le rovine non stanno li impunemente: parlano, agiscono, avvertono, allarmano. In esse il passante che da sempre si è soffermato ad ammirare più le demolizioni che le costruzioni, vede rappresentato il declino delle ideologie, il messaggio epocale del dissolversi dei grandi racconti del pensiero, dei grandi edifici dell'illuminismo, dell'idealismo, del marxismo. Vede la nostalgia del ritiro, il significato del baluginio, dell'intermittenza, delle parzialità, l'estinguersi di un senso forte. E non è più e solo la fatalità o l'enigma di De Chirico, ma è la rappresentazione dell'incapacità di progettare un futuro, di sposare l'ideologia del progresso. Attratto da quelle rovine, come De Chirico era rapito dalle geometrie, egli ora rifiuta la totalità, le ama convinto di dover abitare ai margini, di dover ripiegare su strategie minori, di accettare strutture precarie, sbrecciate, chances. E quando osserva un restauro non se ne compiace, perché avverte che c'è qualcosa di disperato nella conservazione di un destino di rovina, di doloroso e di protervo nella rovina che riedifica sulla rovina. Torino, e tutte le città che come Torino accendono gli accumulatori della metafisica architettonica e delle sue rovine, sono teatri vibranti: hanno la fissità mentale di tramonti barocchi. Sono abbaglianti luci mentali. Oddone Camerana Giorgio de Chirico: «Torino a primavera» (1914)

Persone citate: De Chirico, Eiffel, Giorgio De Chirico, Mazzonis, Nebiolo, Oddone Camerana