Duecento milioni di schiavi

Duecento milioni di schiavi DALL'OCCIDENTE AL TERZO MONDO, TORNA UNA PIAGA CHE SI CREDEVA SCOMPARSA Duecento milioni di schiavi Lo denuncia una associazione londinese per i diritti umani che proprio in questi giorni compie 150 anni -1 negrieri di oggi hanno cambiato strategia, spesso agiscono nell'ambito della legalità - Nel Sudan è ricomparsa la schiavitù «tradizionale», ma ci sono sopprattutto le nuove vittime: bambini comprati e venduti ' in India, in Nigeria o nei bordelli del Bangladesh e della Thailandia, donne filippine in Asia e Medio Oriente - Nel solo Brasile 36 milioni di «ragazzi di strada» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA — La cifra colpisce come una frustata. Ma non è un errore, un malinteso. «Sì, 200 milioni. Capisco, sembrano tanti, troppi. Ma non c'è dubbio, gli schiavi su questo nostro pianeta sono oggi 200 milioni, forse più. La gente non ci crede. Considera la schiavitù una piaga d'altri tempi, un male crudelissimo ma estirpato. Invece no. La schiavitù continua, in altre forme, anche senza ceppi, senza catene, senza navi negriere». Sono in un ufficio, a Londra, nella modesta sede della Anti-Slavery Society for the Protection of Human Rights. Sono giorni importanti, solenni nella sua storia. Compie centocinquant'anni. E' la più antica società per la difesa dei diritti umani, eppure pochi la conoscono. Persino in Inghilterra, dove nacque nel 1839, sei anni dopo la morte di William Wilberforce, il filantropo e parlamentare che più di ogni altro uomo contribuì alla vittoria contro la schiavitù. E anche chi la conosce non ne apprezza sempre 10 straordinario lavoro, che non è affatto un tranquillo viaggio nel passato bensì un combattimento continuo e rischioso. Il nemico? I negrieri di oggi. Ve ne sono a migliaia, anche se hanno cambiato nome, volto, strategia. Spesso non violano le leggi; delle leggi anzi si servono. Talvolta, negriera è la collettività stessa, la nazione, la sua élite. Con quali armi la società affronta questa guerra? Con la sua credibilità. Alan Whittaker, che della Anti-Slavery Society è tra i direttori, spiega: «Noi non lottiamo per salvare qualche individuo, ma per eliminare o alleviare certe condizioni sociali, condizioni che, per la loro vastità e complessità, sono curabili soltanto dagli Stati, dagli enti internazionali e dalle Nazioni Unite. Nostro compito è quello di rivelare, di segnalare, di riferire: e, se necessario, di "imbarazzare" i governi, le autorità, le grandi aziende. Ecco perché 11 nostro vincolo più importante è quello con il Consiglio Economico e Sociale dell'O- nu, di cui siamo consulenti, con un ruolo speciale. Ecco perché le nostre informazioni, le nostre accuse devono essere corrette, precise». Nella piccola biblioteca della Society si conservano alcune orrende reliquie della vecchia schiavitù. I ferri che avvincevano le caviglie; i gioghi, lignei ma grevi come macigni, che facevano dell'uomo o del fanciullo un animale prigioniero. Oggi non si usano più: ma ancora esistono creature in cattività, mere «cose» senza diritti, alla mercé di tutti. L'Anti-Slavery Society, come l'Onu, divide questi schiavi in tre categorie. Chattei slavery, in cui una persona è chattel di un'altra, ovvero un bene, posseduto totalmente. Debt bondage, una servitù della gleba, un'ipoteca sulla pelle, maledizione di debiti recenti e antichi, talvolta dei nonni e bisnonni. Infine, la piaga più profonda e più crudele, il CbilJ labour, lo sfruttamento dei giovani. La Chattel slavery, la schiavitù pura, è ricomparsa due anni fa, in Sudan. La documentazione è meticolosa e agghiacciante. Nella sua lunga guerra contro lo Spia, Sudan People's Liberation Army, un movimento dominato dai Dinka, una popolazione africana, animista e cristiana, il governo centrale di Khartoum si serve di milizie formate da nomadi arabi, per lo più musulmani. Il prigioniero dinka diviene sovente uno schiavo, che il miliziano arabo, il padrone, o tiene per sé o vende per somme tra le 40 e le 80 mila lire. Altri schiavi vengono uccisi perché, finito il raccolto, nessuno ha più bisogno del loro lavoro. Talvolta sono i genitori stessi che, avendo perso tutto nella guerra, vendono i figli, al mercato, quasi sempre bambini tra i 6 e i 12 anni. Un calcolo esatto è impossibile. Ma gli schiavi dinka sarebbero già seimila. E' un numero impressionante: ma come si arriva a 200 milioni? L'India è il grande moltiplicatore, non soltanto per le sue dimensioni ma anche per la sua indifferenza a certi drammi sociali e umani. Un dc<umehéò' dell'AiUlSlavery ; Society dichiara: «Oggi, nell'era dei voli supersonici e dell'alta tecnologia, dei microcircuiti e delle fibre ottiche, l'India ha la più vasta popolazione di schiavi sulla faccia della Terra. E' triste, ma bisogna dirlo e ripeterlo». Secondo calcoli fidati, i bambini che lavorano sono 50 milioni, ma potrebbero essere 100; e gli schiavi per debiti, i servi della gleba, sono 5 milioni, ma potrebbero essere 25. Più una moltitudine, una nazione di Street children, quei ragazzi di strada che schiavi sono perché non hanno nulla, tranne il loro disperato coraggio. D'improvviso, si scorge tutto l'orrore di questa neoschiavitù, che è fatta soprattutto di bambini, e non soltanto in India. Bambini trattati e maltrattati come i piccoli sventurati nei romanzi di Dickens, bambini comprati e venduti, bambini-operai, bambini-garzoni, bambini-braccianti, bambini-ladri, bambini-prostitute. Certo, non si possono dimenticare tutte le altre tragi¬ che creature, sciami di uomini e donne. Vi sono gli indigeni Dumagat nelle Filippine, asserviti dalle tribù vicine che esigono il loro lavoro a pagamento di debiti — talvolta poche manciate di riso — accumulatisi in quasi un secolo. Vi sono tutte quelle domestiche filippine, vittime di mille soprusi e abusi, prive di ogni diritto, soprattutto nei Paesi più ricchi in Asia e nel Medio Oriente. Non possono neppure' fuggire. I •padroni trattengono il passaporto. Si potrebbe continuare, indicare altre oppressioni, altri ingiustificabili servaggi: ma è la folla dei piccoli schiavi che agguanta l'attenzione e ferisce la coscienza. Abbiamo detto dei 50 o 100 milioni di bambini indiani, trasformati sin dalla più tenera età in strumenti di produzione. Basti un esempio: quello dei 100 mila ragazzi usati nella fabbricazione dei tappeti, un'attività malsana, pericolosa. Il 15 per cento ha tra i 6 e gli 11 anni. Non pochi sono stati sottratti alle famiglie. L'India non è l'unica peccatrice. Il veleno del Child'labour intossica anche il Pakistan, la Malaysia, la Nigeria, il Bangladesh dove, nell'87, l'Onu scoprì che 800 bambini e bambine tra i 7 e il 15 anni •lavoravano» in bordelli a dieci miglia dalla capitale, Dacca. In Nigeria i bambini e i ragazzi costituiscono circa il 40 per cento della forza di lavoro. L'Anti-Slavery Society narra una vicenda allucinante. Due anni or sono una famiglia nigeriana vende la figlia Hauwa, di 12 anni, a un uomo che la vuole per sposa. Hauwa tenta più volte di fuggire. Adesso non può più cercare salvezza. Il marito, per non perderla, le ha tagliato le gambe. C'è una nuova tratta. Astuti sensali importano in certi Paesi del Golfo fanciulli pakistani, che i genitori cedono perché ingannati da false promesse. Ma, una volta tra le sabbie, i piccoli asiatici vengono legati ai cammelli da corsa. «A quanto pare, le grida dei riluttanti fantini spronano i cammelli a galoppare più rapidamente verso il traguardo». Gli stranieri che visitano la Thailandia con i figli tornano estasiati. «Un popolo dolce, gentile. Tutti sorridevano ai miei bambini, mai un rimbrotto, mai un'occhiataccia». Non è la solita ubriacatura di esotismo, i siamesi hanno tali virtù. Ma vi è un'altra Thailandia, quella che la Society giudica «crudelissima». E' un volto che fa paura: 800 mila bambine e bambini sul mercato della prostituzione. Non basta. Il commercio dei piccoli thailandesi è libero, si può comprare una creatura, uno schiavo, per circa 180 mila lite ed esigere la ricevuta. In dieci anni, oltre 10 mila infanti sono stati portati di contrabbando in Malaysia, un baby trade ormai famoso. Forse ve ne un secondo, adesso, macabro, avvertono notizie insistenti. Si esporta droga occultandola in baby morti, irriconoscibili perché al collo della madre. E' vero, c'è quel sentimento che gli inglesi chiamano compassion fatigue. La stanchezza di chi ha visto troppe scene di dolore e di efferatezza, di chi non ha più lacrime da versare. Ma come si possono trascurare i 36 milioni di ragazzi di strada brasiliani? Trentasei milioni, una nazione, una Polonia, poco meno di una Spagna, quattro Svezie. «Sono schiavi — affermano l'Anti-Slavery Society e le Nazioni Unite —. Sono schiavi perché sono sfruttati, perché la società nega loro tutti i diritti che spettano a un bambino. Il diritto a non vendere il proprio corpo, a studiare, a crescere sano e contento». E' lo stesso servaggio di chi, bimbo o fanciullo, è costretto a lavorare, sovente" senza protezione alcuna, un fiore appassito prima di sbocciate. Anni fa, quando era di moda il terzomondismo, moltissimi erano coloro che attribuivano ogni guaio in Asia, in Africa, in Sudamerica alle ferite lasciate dal colonialismo europeo. Quei 200 milioni di schiavi disseminati oggi su vasta parte del pianeta stimolano alcune importanti riflessioni. La moderna tratta degli schiavi, fra il '500 e T800, non fu, come nei tempi antichi, una crescita spontanea determinata da certi sviluppi economici e persino da certe esigenze sociali, ma una «mostruosa aberrazione politica e morale». E' il giudizio dell'Enciclopedia Britannica: ed è impeccabile. Un'aberrazione che arricchì varie nazioni, ma soprattutto l'Inghilterre, protagonista del dramma. Furono gli immensi capitali generati dal trasporto di schiavi dall'Africa alle Americhe che permisero alla Gran Bretagna di finanziare la sua maestosa rivoluzione industriale. Chi vuole attenuare le responsabilità europee rammenta che i negri venivano alacremente e allegramente venduti dai loro capitribù. E' vero, ma le tremende responsabilità restano: sia quelle dei negrieri, pronti a gettare a mare il loro carico umano se scoperti dalle unità della marina, sia quelle dei grandi imprenditori, degli altolocati capitalisti. Come giudicare allora la neoschiavitù? Ci mostra che il flagello non è un vizio congenito degli occidentali, che altre società possono essere inquinate, che gli ex colonizzati non sono certo migliori degli ex colonizzatori. Niente boria, però. Anche Europa e America hanno le loro colpe. Londra brulica di Street children, migliaia e migliaia, madre Teresa li ha visti e ha detto «sono sgomenta». La New York povera è una giungla. Qualche anno fa, anche l'Italia comparve sugli atti d'accusa dell'Anti-Slavery Society. Gli schiavi? Bambini, ragazzi tra i veleni di piccole aziènde napoletane/ Mario CirieDo ■ ■■ i L'interno di una nave «negriera», da un'antica incisione. Ma la schiavitù è ancor oggi una dolorosa realtà, sotto altre forme

Persone citate: Alan Whittaker, Bambini, Dickens, Hauwa, William Wilberforce