L'Argentina in ginocchio teme un nuovo salto nel vuoto di Mimmo Candito

L'Argentina in ginocchio teme un nuovo salto nel vuoto Il tentativo del governo di redistribuire le ricchezze è fallito - Nessuno conosce la ricetta per uscire dalla crisi - La gente teme un ritorno alla dittatura L'Argentina in ginocchio teme un nuovo salto nel vuoto Ogni giorno muoiono di fame almeno tre bambini -1 salari non consentono la sopravvivenza - La carta per stampare le monete vale di più del denaro stesso - L'inflazione annuale è giunta ad un tasso del 462 mila per cento • Otto milioni di persone vivono in stato di povertà assoluta DAL NOSTRO INVIATO BUENOS AIRES — Come sapere, come poter capire quando comincia a morire un Paese. E un Paese vuol dire una società, la vita della gente, l'identità stessa di una nazione; non soltanto il cambio di un governo o di un regime, che sono cronache frequenti della lotta politica e appena di rado sfiorano le tragedie della storia. Oscar Teràn, filosofo sereno, storico delle idee, ammette: 'Già ci siamo dentro'. L'Argentina sta morendo. Lo dice ogni persona che incontro, non solo le interviste ufficiali, ma anche il giornalaio che nel suo chioschetto verde passa tutta la notte con la coperta sulle spalle, il vecchio cameriere pugliese che non ha più soldi per telefonare alla sorella che vive a Torino e chiederle come sta, il mio collega di quaggiù che guarda con rabbia i mille Austral dati a una mamma che una notte vedo stesa in un androne di calle Florida, la strada di tutte le eleganze, con quattro bimbi che le stanno accucciati addosso a proteggersi dal gelo di quest'inverno in arrivo dall'Antartide. Mille Austral sono seimila lire, lui dice con violenza: •Sono quanto io guadagno in due giorni di lavoro'. Tremila lire per una giornata di lavoro, seimila per due; e mi fa vergognare. Quando Alfonsin stampò la nuova moneta, tre anni fa. ì tempi mostravano una nuova euforia, la lunga crisi degli anni di piombo sembrava finalmente chiusa, e con l'Austral fiammante di orgoglio si poteva comprare un dollaro e ci restavano anche 20 centesimi di so- vrappiu. Oggi tutti parlano di Weimar, e l'Austral vale meno della carta sulla quale è stampato; per comprare lo stesso dollaro di tre anni fa ora ce ne vogliono 180, e al mercato nero naviga già sui 200 e passa. La Semana, una rivista popolare di buona tiratura, è apparsa nei chioschi dei giornalai con un biglietto da un Austral, appiccicato sulla copertina. Quegli Austral erano denaro vero, anche sgualcito, semistrappato come tutte le monete di grande circolazione. -Ci è costato meno incollare un biglietto a ogni copia piuttosto che realizzare un fotocromo e stamparlo', ha scritto l'editore. Pare che tutta l'operazione sia costata 250 dollari; fare una foto, inciderla, e riprodurla, ne avrebbe richiesto il doppio, n titolo di copertina era un'orazione funebre: -La muerte del Austral-. Un buco nero Non è solo la moneta a morire, il deprofundis si recita per l'intero Paese. L'inflazione di maggio ha superato i 100 punti, gli economisti dicono che la proiezione esponenziale fa un tasso d'inflazione annuo del 462 mila per cento. Osvaldo Boriano, l'autore di So hay pena ni olvido, scuote la testa: -Siamo arrivati al fondo della nostra identità. Ormai non resta più nulla, solo un gran buco nero-. E per scrivere il suo nuovo libro se ne va sempre più spesso a Parigi, dove aveva passato gran parte dell'esilio dalla dittatura. -E' come se l'Argentina vera, l'unica Argentina possibile, sia rimasta quella della memoria. L'altra, l'abbiamo consumala'. Teràn, Osvaldo Soriano, non sono amarezze letterarie. Soriano è uno che vive alla Boca, nel quartiere più popolare di Buenos Aires, tra vecchie case di legno, prostitute colorate, lunghe notti abbandonate al freddo senza pietà; e la gente di un Paese che muore è ii suo paesaggio quotidiano, con i vecchi emigrati italiani che ormai sono andati via e le strade si sono fatte piene di paraguaiani e boliviani che erano venuti qui a tentare la fortuna quando questa già se n'era scappata. Alla Boca, nelle lunghe mattinate della domenica nelle quali c'è il sole e i pullman scaricano i turisti brasiliani arrivati dagli alberghi del centro, una ragazza col foulard nero al collo e gli occhi tinti accompagna un vecchio suonatore di bandoneon. -Caminito que el tiempo ha borradol quejunI tos un dia nos viste posar». Gli Austral vengono lasciati cadere in un cappello rovesciato sul selciato, e la ragazza continua a cantare e fa «Grazie» con un cenno della testa. Alla fine sono il valore di poche lire, la mascherata patetica dura giusto il tempo di qualche foto davanti alla bohème del Caminito: poi la Boca ritoma allo sfascio gerontocratico delle sue miserie. I saccheggi Sembra quest'Argentina che s'illude solo di passato. I saccheggi della fine dì maggio hanno devastato San Miguel, Moreno, Mitre, Sarmiento, Belgrano, San Martin, quasi tutta la periferia industriale di Buenos Aires; hanno risparmiato la Boca solo per caso, anche dietro il Caminito ridipinto per le foto dei brasiliani ci sono le stesse miserie disperate dei quartieri presi d'assalto: marginali senza speranza né ruolo sociale, la droga, le canagliate di chi non ha cosa perdere, ma soprattutto il 22,5 per cento delle famiglie che guadagna meno di un salario minimo, il 40,7 che non arriva a due salari. Il salario minimo per il mese di maggio era di 4000 Austral, cioè poco più dì 20 dollari. Lo stesso livello di Haiti. Per giugno è stato portato a 8700, ma questo era il Paese delle grandi fortune, della carne per tutti, dei viaggi in Europa fatti con la vacca nella stiva della nave per averne il latte fresco al mattino, mentre dal ponte di prima classe si ammiravano le immensità eleganti dell'Atlantico. Mi dice Oscar Teràn: 'L'idea della grandezza è un mito fondatorio dell'Argentina'. Oggi 8 milioni di argentini, cioè poco più di uno ogni tre, sono classificati come poveri. Le statistiche magari impressionano poco, però poi s'incontra padre Luis Farinello, parroco della Madonna dì Lujàn, a Quilnes, e lui spiega con il sorriso mesto della sua carità impotente: «Ho tenuto nelle mie braccia bambini che mi morivano per denutrizione'. Ogni anno in Argentina muoiono per fame più di mine bambini, sono tre bimbi ogni giorno. Queste potrebbero essere le cronache dall'Uganda, sono invece le scoperte amare di un Paese che ancora nei primi Anni Cinquanta era al sesto posto tra le nazioni ricche del pianeta. In ima conversazione di qualche giorno fa, il nuovo ministro dell'Economia mi diceva: 'Abbiamo ereditato profonde ingiustizie storiche'. Jesus Rodriguez ha appena 34 anni, e l'hanno scelto perché un sacco di al¬ tri possibili ministri si erano tirati indietro per non assumersi il carico amaro degli ultimi giorni dì Alfonsin. Questa Buenos Aires diventa una Pompei che agonizza; è diversa solo perché ha la consapevolezza dell'agonia. Dice Rodriguez: »La mia generazione ha il dovere dell'impegno, non può chiudere gli occhi su quanto le sta sfilando accanto. E' finito il tempo delle illusioni», e chiede solidarietà, l'unione di tutti gli argentini. Ma forse è tardi, anche se un vecchio gestore del passato, l'ex ministro dell'Economia Roberto Alemann, conferma da un'altra parte della società: «/I tempo della festa è consumato, ora bisogna pagare il conto». Perché Menem La gente lo sa: il 14 maggio, nelle elezioni presidenziali che hanno dato la vittoria a Menem, il 47,9 per cento dei voti fu motivato dalla 'preoccupazione della crisi' e dal 'desiderio di rovesciare l'andamento dell'economia'. Questo 47,9 è stato dì gran lunga la motivazione più sentita; a distanza, con il 22,4 delle scelte, segue 'il desiderio di garantire la continuità democratica». Le profonde ingiustizie storiche citate dal giovane ministro dell'Economia s'intrecciano con la scomposizione dei dati del sondaggio d'opinione; in quel 47,9 per cento che si è chiuso nel segreto del seggio sotto l'angoscia dì un degrado economico ormai insostenibile, sono rappresentati la maggioranza (56 per cento) dei votanti delle classi più popolari, anche una quota molto ampia (il 47 per cento) dì classe media, ma solo il 28 per cento degli argentini che hanno redditi alti. Dice ancora Alemann: -E'finito un progetto di Stato, l'Argentina che verrà ora deve essere diversa». Su questa diversità sono possibili molte interpretazioni, però sotto accusa appare comunque l'Argentina del passato, che aveva costruito la propria storia economica su un modello di accumulazione capitalìstica, nel quale il frutto della rendita aveva maggiore importanza, e perciò maggiore influenza politica, degli Investimenti produttivi e del reddito da lavoro. Sono all'incirca le parole del ministro Rodriguez, vogliono dire che l'Argentina arrivata a questa crisi è ancora il Paese che fino alla Grande Depressione del '29 e, poi, fino al termine della Seconda Guerra Mondiale, potè sfruttare le formidabili ri¬ sorse agrarie di una terra fortunata e fertile, costruendo sulle esportazioni del grano e della carne le ricchezze dello Stato e dei potenti produttori agropecuari. Era un Paese forse ricco e felice, ma dove era fortissima la contraddizione tra la qualità del costume collettivo di vita, brillante, aperto, moderno, e l'inadeguatezza delle strutture economiche, chiuse, duramente avverse a ogni forma di modernizzazione. Terratenientes Dice l'economista Carlos Sabatini: -La crisi cominciò quando un principio di redistribuzione più equitativa fece saltare gli equilibri precedenti e scaricò interamente sullo Stato il costo della modernizzazione-. La vecchia Argentina del terratenientes ha cercato di resistere alla trasformazione che i tempi, e lo sviluppo dei mercati mondiali, esigevano da un Paese senza una reale capacità industriale; e ha imposto le sue scelte con colpi dì Stato, generali pronti a salire al balcone della Casa Rosada, legislazioni che penalizzavano Io sviluppo industriale e rendevano invece agevole uno spregiudicato uso speculativo delle risorse finanziarie. Dice ancora Sabatini: «71 knock-out inflitto al governo tra febbraio e maggio con l'ultima dollarizzazione dell'economia chiude quel ciclo-. Le industrie oggi lavorano al 35 per cento della capacità degli impianti, il loro prodotto è ormai tornato al valore che aveva nel "70, i salari reali sono al livello del '73. Però le cinquanta grandi famiglie che controllano i due terzi delle esportazioni hanno incrementato le loro fortune di almeno dieci volte in poco più di un mese, giocando sul mercato finanziario la potenza che gli derivava dai dollari tenuti in cassa. Un Paese, un'idea di società, stanno scomparendo sotto la pressione dì una miseria diffusa, inabituale. Il vecchio presidente Sarmiento esaltava orgogliosamente in questo popolo gli yanquis del Sudamerica, Alberdi li raccontava come europei trapiantati ma non radicati. L'illusione ha superato gli anni e il disincanto, si è sempre ritrovata dopo i fallimenti, ogni volta ricavava nuova energia dalla memoria di una nazione dì emigrati, che aveva attraversato gli oceani per puntare sul futuro e non poteva accettare l'idea della sconfitta di quel lungo viaggio senza ritorno. Ora questo è finito. Cancellarlo dall'immaginario collettivo non sarà facile, costerà sudore e lacrime. Ernesto Sabato, l'ultima grande voce della cultura argentina più amara, cosciente di se,aspramente critica, mi dice soltanto: -Speriamo di non imbarcarci di nuovo nel suicidio di un popolo-. Mimmo Candito