«La Biennale è già morta»

«La Biennale è già mòrta» VENEZIA, IL MALE OSCURO DELLA GRANDE RASSEGNA D'ARTE «La Biennale è già mòrta» Per il vicepresidente del Consiglio, Gianni De Michelis, è inutile parlare di nuovo statuto o maggiori finanziamenti - La manifestazione deve diventare un centro propulsivo, «il nostro Louvre» - Un convegno a Venezia, l'8 luglio, organizzato dall'Istituto Gramsci - Massimo Cacciari: «Grandi, grandissime esposizioni, e non mostre storiche» - Troppi progetti, spesso improvvisati DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA—«La Biennale è morta, ma non perché l'ho ammazzatalo». E'l'attacco di Gianni De Michelis, veneziano e socialista, vicepresidente del Consiglio. Non gli interessa sentir parlare né del progettato nuovo statuto né di maggiori finanziamenti. «Sono sempre chiacchiere attorno a un cadavere». Anzi, «1 peggiori nemici della Biennale sono proprio i suoi difensori. Ne logorano il marchio internazionale: troppe acrobazie intellettuali, troppe iniziative simili a tante altre». Bisogna invece rendersene conto: «La Biennale non funziona per cattiveria o incapacità, ma perché è finita, superata dalle odierne risorse di informazione in tempo reale, dalle nuove conoscenze che ha la gente. Era un'idea geniale un secolo fa». Il modo migliore per festeggiare il centenario del "95 è allora «organizzare una manifestazione che ricapitoli il secolo e poi chiudere questa Biennale per farne un'altra. La Biennale è morta, viva la Biennale». La Biennale nuova vagheggiata da De Michelis ha quattro caratteristiche, sul versante dell'arte: certo, ancora il nome e la sede a Venezia; e certo, ancora l'internazionalità, la vocazione di-Orni della cultura- («le strutture ci son già: i padiglioni»). Ma poi si dovrebbero inventare attività permanenti, laboratori di ricerca continua, puntando sul potenziamento dell'attuale Archivio storico delle arti contemporanee (Asac). Cosi le grandi esposizioni sarebbero il punto d'arrivo di un processo che nasce e si sviluppa qui, a Venezia, non altrove. Infine, quarto punto, dalla Biennale deriverebbero nuove strutture stabili, come l'auspicato museo d'arte contemporanea (in utili. Co' Pesaro aggiornata,). Non .è, finita. Una taletBiemwle diverrebbe «perno», banca dati, centro propulsivo per un inedito 'Circuite museale: Quale circuito? «n nostro Louvre», risponde De Michelis. «il Louvre non ce l'ha solo Mitterrand. Se a Venezia noi raccordiamo con intelligenza Galleria dell'Accademia, Ca' d'Oro, Ca' Rezzonico, Ca' Pesaro, Museo Correr e Palazzo Ducale, abbiamo uno dei più grandi complessi museali del mondo. A questi sei musei aggiungiamo ora altri due contenitori, un palazzo antico e il padiglione Italia della Biennale, trasformato in Kunsthalle, in museo per mostre. Nascerebbe un unico sistema straordinario, estremamente dinamico, capace di quattro mostre all'anno, ricco di sperimentazioni e di iniziative peri visitatori». La Biennale come luogo di progettazione del nuovo, come cuore d'arte che batte per l'intera città. Città che De Michelis vedrebbe rinnovata anche da altre due iniziative. La prima è l'arrivo nel 2000 dell'Expo, la mirabolante esposi zione internazionale, da ubicare ovviamente sulla terraferma, con terminale di smistamento a Tessera. «Siamo in concorrenza con Hannover e Toronto. A ottobre ci sarà l'istruttoria del parigino Bureau International des expositions. Se ci dicono di sì, gli Anni Novanta diventano la pista di decollo». La seconda carta da giocare è il recupero di piazza San Marco, ospitando in quei palazzi uffici e consigli degli enti locali. Una Biennale alienata, un vortice di visioni? Tutt'altro, per De Michelis: «Queste sono idee forti e concrete, non affabulazioni, come invece finora ho sentito fare sulla povera Biennale». «Con De Michelis sono spesso in posizione di aperta dialettica», replica il filosofo Massimo Cacciari, ex deputato del pei. «Lo si vedrà anche al convegno dell'8 luglio». Un convegno organizzato a Venezia dall'Istituto Gramsci Veneto proprio su La Biennale e l'idea di Venezia Fa seguito all'incontro dell'anno scorso sul futuro della città. «Consideriamo Venezia come città capitale, premette Umberto Curi, direttore del Gramsci, consigliere della Biennale, cioè città vivente, purché sottratta all'unica e distruttiva cultura imperante, quella dello sfruttamento turisticocommerciale». Nel piano di Cacciari affiorano affinità e divergenze con il piano di De Michelis. Tre sono le linee di forza In primo luogo vede anche lui Venezia come luogo organico di conservazione museale', una conservazione aperta all'oggi e all'ambiente. Poi sottolinea l'idea di incrementare le attività, produttive e di ricerca, connesse con questa tesaurizzazione proiettiva del passato. Dove si valorizzano, queste attività? In prima battuta proprio nei campi della conservazione ambientale e del restauro, d'accordo con l'Università; quindi nei campi del disinquinamento e delle tecnologie marine. Per questi ultimi si può pensare anche a una fiera periodica. Il mercato «C'è mercato per simili iniziative: non sono campate in aria, ma congruenti con la storia e con la vocazione di Venezia. Né risultano st^avol|-genti, comei'Expo sbandierata da De Michelis», polemizza il filosofo. Infine, terzo punto collegato con i due precedenti, la riorganizzazione e il potenziamento delle attività culturali a carattere intemazionale. Come la Biennale. La Biennale, «poche storie, deve fare grandi, grandissime esposizioni», come Documenta a Kassel, solo che là si verificano ogni quattro anni e soltanto nell'arte, piovendo giù non si sa da dove, senza nessun rapporto con il luogo che le ospita, mentre le iniziative veneziane si rivolgerebbero alle varie arti e per di più nascerebbero proprio qui, come punto culminante e dimostrativo di una ricerca originale. Questo avviene, come per De Michelis, grazie all'attività di strutture permanenti. La Biennale come corpo integrato con la città. E le 'grandissime esposizioni' servono per documentare fenomeni contemporanei d'arte. Niente mostre storiche, quindi, «che competono agli assessorati e a Palazzo Grassi». Con costoro possono però sempre avviarsi delle collaborazioni, per esempio proprio su quegli approfondimenti storici che risultino utili per capire meglio ciò che è contemporaneo. Che ogni settore della Biennale vada poi per la sua strada, contìnua Cacciari, «senza pasticci interdisciplinari». E niente comitati scientifici («sono dei commissariati del popolo»;; solo un consiglio d'amministrazione ridotto al minimo, «per costringere i partiti a designare le persone più adatte». Chiarisce: «Non rifiuto la lottizzazione perché non sono un moralista. La democrazia è Stato dei partiti e in democrazia ci sono delle regole». Una di queste regole — sottolinea — è che «conta chi conta», per cui «se i partiti piccoli non entrano, tanto meglio. Sarebbe ora». Cacciari conclude: «Se qualcuno abbraccia e discute queste idee sulla Biennale e Venezia, io sono a disposizione. Per fare l'usciere o il sindaco, non importa». Spiega ccsìi.«MisonoJmpegnato per una ragione etica Venezia mi appare un'occasione straordinaria, con ricchissime potenzialità culturali e produttive. Vederle cosi peccaminosamente stracciate suscita in me ira e sdegno. Mi devasta il sistema nervoso vedere queste città italiane, come anche Firenze e Napoli, massacrate dall'ignoranza». Ciò che accomuna, al di là delle differenze, le idee di Cacciari con quelle di De Michelis, è il rapporto diretto che si deve instaurare tra la Biennale e Venezia. Laboratori Conviene insistere: la Biennale non sarebbe più un ente che organizza solo mostre e spettacoli, ma un centro di progettazione che fa sistema con la città. I suoi compiti diventano molto più impegnativi. Si ampliano, non si potenziano soltanto. Strumento principe per una tale trasformazione della Biennale sarebbero i laboratori permanenti. E' questa conclusione che fa discutere, che costituisce il primo elemento di divisione tra le idee di rinnovamento della Biennale. Gianfranco Bettetini approva si per esempio quest'attività dì laboratorio, anche per lui anco¬ rata all'Asac, ma la vede nei limiti di un'operatività prevalentemente linguistìcoestettea. Non piace invece a Omar Calabrese, che la giudica 'Utopica e sessantottesca: Lo studioso del Dams rilancia invece, aggiornata, una proposta che caldeggiò nell'SO con Tomas Maldonddo: vede la Biennale come un'azienda, che indice concorsi pubblici e poi sceglie i migliori progetti culturali «Sarebbe tutto trasparente». Quante proposte, in questo dibattito sulla nuova Biennale. La discussione è ormai avviata. «Buon segno» commenta Bruno Pellegrino, responsabile culturale del psi. «Vuol dire che la Biennale è percepita non come una delle tante sedi di cultura a Venezia, ma come la più importante Istituzione di sperimentazione e progettazione culturale del Paese». Aggiunge: primo, che secondo lui «la Biennale fa sistema con la Quadriennale romana e la Triennale milanese, e che è il momento di pensare a un loro rilancio globale»; secondo, che «una proposta organica sarà presentata dal psi subito dopo il festival del cinema», mentre «si confermano gli incontri con la de per una nuova solidarietà operativa»; terzo, che «si deve pensare a grandi investimenti. Niente più elemosine. Nessun dubbio, se si guarda a quel che avviene all'estero». Poi Pellegrino dice che «tocca allo Stato intervenire in forze, superando l'attuale venezianità della Biennale e dello statuto». Che cos'è questa 'venezianità'? E' il fatto che nell'organo di governo della Biennale, cioè il consiglio direttivo, attualmente undici consiglieri sono nominati dagli enti locali, uno dal personale, mentre il sindaco vi appartiene di diritto come vicepresidente: 13 consiglieri 'veneziani' su 19. Le parole di Pellegrino prefigurano una possibile e definitiva 'romanizzazione' dell'ente. Come dire: «Chi dà i soldi? Roma Che dunque governi direttamente Roma secondo una visione nazionale di competenze tra Biennale, Triennale e Quadriennale». Questo significa forse la rinuncia a un rapporto strutturale tra la Biennale e Venezia, come sostengono De Michelis e Cacciari? Ci sono due diverse strategie nel psi? In questa fase dì dubbi e dì ipotesi, del 'non più- e del «non ancora; la Biennale cerca di evitare che le lunghe attese divengano sabbie mobili. Scattano però anche prudenze e diffidenze, di fronte agli ampi affreschi e alle pur generose intenzioni. Per esempio l'ex presidente della Biennale Giuseppe Galasso avverte che è meglio lavorare, di qui al "95, semplicemente «con la certezza di un programma e con un impegno di riflessione serio». Perché «tanti progetti per risistemare la Biennale rivelano, nelle loro stesse vistose differenze, una buona dose di Improvvisazione e di opinabilità». Anche Mario Fazio, presidente di Italia Nostra, è sconcertato: «Pensiamo pure alle cose nobili, come a una grande e rinnovata Biennale. Ma pensiamo anche a dare condizioni normali di vita ai 60 mila veneziani, ancora senza fognature. Venezia si sgretola: la gente va via perché le condizioni sono malsane, non perché non ci sono condizioni di lavoro. Abitano in terraferma e fanno i pendolari. Poi arrivano i ricchi e comprano gli ultimi piani dei palazzi». Ancora- «Ci si lamenta dell'eccesso di turismo. E che altro porterebbe l'Expo, pur con i suoi diversi poli espositivi?». Fili diversi si intrecciano. La storia odierna della Biennale veneziana è la storia di un groviglio italiano. Claudio Al tarocca (Fine. I precedenti articoli sono stati pubblicati il 18 e 1122 giugno) Venezia, un anno fa: Gianni De Michelis e il critico Giovanni Carandente all'inaugurazione, davanti a sculture di Ciò Pomodoro