Un nuovo statuto «per volare»

Un nuovo statuto «per volare» IL MALE OSCURO DELLA BIENNALE: QUALI PROSPETTIVE Un nuovo statuto «per volare» Scandali e polemiche non sono certo una novità - Si cominciò con un dipinto contestato perché «osceno» già alla prima edizione, nel 1895 - Anche le difficoltà economiche sono una costante - Ma il problema vero è quello di capire che cosa debba essere oggi la manifestazione - Il presidente Portoghesi: «Possibilità di contaminazione fra teatro e tv» DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA — L'architetto Paolo Portoghesi, presidente della Biennale, ne è convinto: «Con un nuovo statuto torneremo a volare». Addio consigli direttivi pletorici e rissosi, lungaggini da parastato, bilanci sguarniti di denaro. «Sogno finalmente due organi di governo con competenze ben distinte: un consiglio d'amministrazione da una parte, con non più di cinque membri cinque autentici manager che si occupino anche di sponsorizzazioni, e un comitato culturale dall'altra, con nove intellettuali. Gente d'alto livello, come Galasso, Moravia, Olmi o i Taviani E quanto ai contributi dallo Stato, bisognerà arrivare a 40 o 50 miliardi, contro i 10 attuali». Portoghesi dice che si sta battendo per questa svolta. «Fra due anni chiudo, me ne vado. Se sto sui piedi a qualcuno, ci resto per poco. Ma prima mi piacerebbe consegnare come ricordo una nuova Biennale». Confida: «Sono rimasto nell'ente veneziano perché altrimenti avrebbero cancellato il settore Architettura. Già cominciavano. Invece è il settore più vitale». Anche Giorgio Sala, democristiano forte in consiglio direttivo, si tiene su con il desiderio del nuovo: «Mi sono stufato di questa Biennale. Così com'è non è una cosa seria. Ma se si riesce a farla cambiare, vale la pena di rimanere». Già Afa come si fa a cambiare la Biennale? «Ci vuole una legge, ma i deputati li troviamo», afferma sicuro Portoghesi. «E Ottaviano Del Turco, che è nel consiglio direttivo, si è impegnato a organizzare un incontro con i tre sindacati perché il nostro statuto non abbia più nulla a che fare con la burocrazia del parastato». La brezza del mutamento si leva dunque dalla Laguna, discende e scorre nelle stradine del centro romano, s'infila nei corridoi del Palazzo. Dai partiti piovono segnali d'assenso, propositi di reinvenzione. S'annuncia una fase costituente per la nuova Biennale: sarebbe la terza rinascita dopo la fondazione nel 1895. La prima avvenne con lo statuto del '30, quando lo Stato romano si sostituì in pratica al Comune veneziano nei finanziamenti. Fu allora che nacquero, accanto all'arte, i nuovi settori del cinema, del teatro e della musica. La seconda metamorfosi coincise con lo statuto sessantottardo del '73, ancora in vigore. Il fatto è che gli attuali consiglieri non ne possono davvero più del loro stesso piagnisteo sulla micragna. C'è già in giro l'allarme per il prossimo anno. Si profilano ombre sulla grande mostra d'arte. «Da sola si beve tutti i soldi a disposizione», si lamenta Sala. «E il cinema? n teatro, la musica, l'architettura?». Assillo antico, questo della mancanza di fondi. A sfogliare la Storia della Biennale, di Paolo Rizzi ed Enzo Di Martino (Electa), si scoprono fior di precedenti. Come nel '56, quando si dovette rinunciare alla retrospettiva di Brancusi. Eccome diecianni dopo, nel '66, quando s'afflosciarono i progetti di grandi mostre e il presidente Marcazzan arrivò a confidare: «Se dovessero applicare la legge, potrei finire in galera». Neanche le polemiche sono nuove. Ancora si discute se le prime esposizioni d'arte, un secolo fa, furono o no delle occasioni perdute, visto die vi vennero acquistate opere che oggi risultano di scarsissimo interesse. Le novità delle avanguardie non erano capite. Ardengo Soffici inveiva nel 1909 contro il buon Pradeletto, segretario generale e animatore delle mostre, perché non puntava abbastanza sugli impressionisti. Non fu molto ascoltato, Soffici. L'anno dopo Fradeletto tolse un Picasso dalle sale per timore di accendere troppe discussioni. Picasso debutterà alla Biennale solo nel '48, con Rodolfo Pallucchini segretario. Le polemiche scorrono nelle vene della Biennale come la sostanza più naturale. Ne hanno sempre decretato il successo. Basta dare uno sguardo ai visitatori. Nel 1895, alla prima edizione, dopo i gran conversari nelle salette del Caffé Florian tra il sindaco Selvatico, l'accademico Fradeletto e il fi¬ losofo Bordiga, i tre papà della Biennale, sfilarono ai Giardini 224.327 visitatori. Nel 1988 sono stati 100 mila; dal 1982 al 1986 la media ha toccato i 150 mila all'anno. Neppure gli scandali sono una novità. Scoppiarono subito, ancora una volta fin dal 1895, davanti al quadro inviato dal torinese Giacomo Grosso, n supremo convegno, dove un volto d'uomo affiorava da una bara tra ceri e drappi neri, circondato da cinque donne nude. Che fare? Si nominò una commissione. Antonio Fogazzaro, a nome anche di Giuseppe Giocosa ed Enrico Panzacchi, sentenziò: «No, il dipinto non reca oltraggio alla morale pubblica». Fu allora il patriarca Giuseppe Sarto, il futurd Pio X, a pregare il sindaco di intervenire. Ma Selvatico rimase fedele a Fogazzaro, il quadro venne esposto e vinse addirittura il premio della popolarità in un referendum tra i visitatori. H supremo convegno fini distrutto in un incendio in America. Altri anni, altri scandali. Nel 1972 si varò la prima mostra a tema, -Opera o comportamento»: venne esposto un mongoloide. E nel '78 il pubblico ammirò la monta artificiale di un toro. Fra un aneddoto e l'altro, fra tonfi e successi, al momento giusto o in ritardo, nelle mostre di Venezia è comunque sfilata la migliore pittura internazionale. Il nostro pubblico l'ha conosciuta lì, come vien fuori anche dal fascicolo di Adriano Donaggio La Biennale di Venezia. Un secolo di storia, in 'Arte e Dossier» dell'estate scorsa. Celebri le parole di Roberto Longhi per i Klimt e i Renoir visti nel '10: «Per tutti noi, giovani sui vent'anni, sia pittori che critici, fu la prima rivelazione diretta della pittura moderna». E sempre, sempre difficoltà finanziarie e organizzative. Tuttavia gli ostacoli d'oggi si ha l'impressione che siano più corposi e insieme più sfug- gentù perché, con un nuovo statuto e con un efficace slancio politico, si owierà si a certi guai di struttura, ma il problema vero, sentito persino in modo drammatico, è l'identità della Biennale oggi, è capire e decidere che cosa essa deve essere e che cosa deve fare. Su questo punto sta aprendosi un dibattito. Le attuali condizioni della comunicazione culturale sono così cambiate, rispetto solo a pochissimi decenni fa, che si profila la necessità di un ripensamento abbastanza radicale, ben oltre un •maquillage» all'attuale statuto. C'è stata e c'è, in Italia e nel mondo, una diffusione vistosa di iniziative e di grandi sedi d'arte, dalla pittura alla musica e al teatro, dalle civiltà storiche alle odierne caratteristiche della cultura di massa. Le promuovono, queste iniziative, goiierni, enti locali, singoli assessorati, gruppi industriali. E il pubblico, enormemente cresciuto in termini numerici, viaggia, è competente, curioso, informato per mille vie. C'è concorrenza. Di più: alcuni linguaggi artistici, come la musica e il teatro, non sembrano più all'apogeo della creatività, della scoperta, della rottura di schemi collaudati. «In giro di nuovo non c'è molto», riconosce Omar Calabrese, docente di Semiologia delle arti al Dams. Che cosa deve fare allora la Biennale? Come può differenziarsi da tante manifestazioni concorrenti? Deve continuare a tenere in vita tutti e cinque i suoi settori, con costi enormi se li vuole mantenere a livelli di sicuro decoro e interesse? Il presidente Paolo Portoghesi si guarda attorno. «In Italia bisogna essere realistici. D teatro è in crisi. La musica, peggio che mai: ci sono grandi divi, ma manca il tessuto. L'architettura è invece vitale, vitalissima». Aggiunge, sulle due arti su cui si appoggia soprattutto la Biennale. «La pittura, legata a una dimensione ancora individuale e artigiana c'è. si sente. Ma il cinema versa in una situazione tragica. Non esiste più iniziativa privata, le televisioni producono e abbracciano tutto. C'è un vuoto». E dunque, quali scenari si preparano? Forse l'arte e il cinema continueranno a farla un po' da padrone, in Biennale? Perché la prima, l'arte, ha dalla sua la tradizione, e perché le esposizioni nei podiglioni stranieri sono già pagate dagli stessi Paesi esteri? E perché il secondo, il cinema, garantisce uno straordinario tornaconto di notorietà internazionale? Musica e teatro saranno allora le ancelle occasionali? Non tanto perché meno importanti, quanto perché allestire belle rappresentazioni costa tantissimo. Certo, se i finanziamenti non godranno di una pronta impennata, e se non subentrerà una diversa valutazione globale, l'esito è questo. Ifasti del passato resteranno un ricordo: le regie dì Max Reinhard! nel '34, e Sartre, Ionesco, Beckett negli Anni Cinquanta, e la prima mondiale di The Rake's Progress di Strawinsky nel '51 con il complesso della Scala alla Fenice, e tanti altri splendidi eventi. E poi, che idea di arte far scendere in campo ? Ancora un concetto rigoroso ma stretto, coincidente con la sola pittura più o meno tradizionale, lega¬ ta al quadro, oppure anche un concetto più aperto, comprendente al limite la pluralità delle arti visive? Alcuni chiedono ad esempio che la Biennale possa ospitare grandi esposizioni multidisciplinari a tema' «Perché la Biennale non diventa anche un po' di Beaubourg?», domanda Omar Calabrese. «Una mostra del tipo Gli Anni Cinquanta era bella e ha interessato molto il pubblico». Quadri, ma anche film, trasmissioni tv, giornali, libri, musiche. Uno spaccato approfondito della cultura di massa, ma non solo di massa, di un certo periodo nel mondo. Portoghesi pensa adesso al teatro e alla televisione. No, non a proposito dell'esperimento di Bene. Non lo dice, ma sembra tentato di provare le odierne possibilità che ha ad esempio la tv di fare e di riprendere il teatro. In Italia il teatro è scomparso dai piccoli schermi. A parte la guerra degli indici di ascolto, da noi non è forse mai stato affrontato duramente il problema delle riprese teatrali, con le necessità di ritmo e di montaggio. E mancano luoghi dove i diversi linguaggi artistici si avvicinino e si conoscano reciprocamente, con il gusto della contaminazione e dell'arricchimento, senza per questo perdersi in un pasticcio indistinto, ma anzi conservando ciascuno la propria specifica fisionomia. Fuò la Biennale avviare esplorazioni simili con strutture permanenti? Oltre a organizzare grandi festival, pensa di dotarsi di laboratori e di centri stabili di ricerca? Sarebbero utili per queW'educazìone» al nuovo di cui parlava Portoghesi. E contribuirebbero a dissipare un eventuale equivoco, dell'avanguardia e dell'espressione spontanea come alibi per nascondere carenze tecniche e professionali. C'è già in Biennale l'Archivio storico di arti contemporanee (Asac), un «fiore ora appassito», come l'hanno definito: tutti pensano debba costituire il primo passo per ogni avanzamento in questa direzione. Claudio Al tarocca e «Il supremo convegno», di Giacomo Grosso. Il quadro, esposto nel 1895 alla prima rassegna veneziana, fece scandalo

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