L'ESISTENZIALISMO OGGI Luci di Kierkegaard di Sergio Quinzio

Luci di Kierkegaard L'ESISTENZIALISMO OGGI Luci di Kierkegaard Negli anni del dopoguerra l'esistenzialismo era una moda, non soltanto culturale. A Parigi non c'era soltanto Sartre, ma Juliette Greco e i caveaux existentieh: un clima, un'aura. Con rare eccezioni, la filosofia italiana, immersa nell'idealismo, se ne accorgeva malvolentieri, e con sufficienza. Ricordo ancora le lezioni, a Roma, di Guido De Ruggiero, che manifestavano una sostanziale estraneità e incomprensione. Eppure, fin dai primi decenni del secolo la «KierkegaardRenaissance» tedesca aveva fatto conoscere alla cultura europea il pensatore danese che, intomo alla metà del secolo precedente, aveva dato inizio a quella «filosofia dell'esistenza» che sarà poi chiamata «esistenzialismo». L'esistenzialismo muove anzitutto dall'esistenza sentita come inquietudine, crisi, drammatica problematicità. Ma appartiene all'orizzonte più generale di un pensiero contemporaneo rivolto — soprattutto con la fenomenologia, e poi con la psicoanalisi — al «mondo della vita», reagendo all'astrattezza concettuale dell'hegelismo e dell'idealismo in genere. Pietro Prini pubblica ora una nuova e più ampia edizione della sua Storia dell 'esistenzialismo (ed. Studium), che ha per sottotitolo Da Kierkegaard a oggi. Tenta insomma, percorrendo le non di rado contrastanti tappe di un pensiero che non è riducibile a sistema, che è anzi incompatibile con lo spirito di sistema, la non facile impresa di farne la storia. S'incontrano così, dopo Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche, Kafka e Unamuno, Heidegger e Jaspers, Marcel e Berdjaev, Sartre e Camus, fino a pervenire alle «odierne filosofie italiane dell'esistenza», nelle quali Prini colloca autori come Enrico Castelli e Giuseppe Capograssi, Enzo Paci e Luigi Pareyson, Pietro Piovani e Alberto Caracciolo. L'esistenzialismo, per Prini, propone anzitutto il problema dcjl «senso del pensare» dentro una prospettiva di radicamento nella condizione della corporeità e della temporalità, come non era mai avvenuto nella storia della filosofia. Vede nelle posizioni lucidamente negatrici di Sartre, il quale considera l'uomo una 'passione inutile», il tralignamento in senso nichilistico delle autentiche istanze esistenzialistiche. E vede infine negli autori italiani che abbiamo ricordato (ai quali va aggiunto il nome dello stesso Prini) uno sviluppo positivo di tali istanze, consistente nell'assumere il nichilismo non come conclusione ma come metodo. Per questa via ci si aprirebbe nuovamente, ma con più consapevolezza, alla ricerca del «fondamento», di un «senso autentico dell'essere», concependo lo stesso «enigma delXambiguità dell'essere come necessità, come finalità e come libertà». L'esistenzialismo ha dunque in definitiva, per Prini, il suo senso nell'arricchire, con il riferimento alla concretezza dell'esistenza, la prospettiva di un pensiero che resta in sostanza quello, tra metafisico e ontologico, di tutta la tradizione filosofica. Solo così, secondo Prini, potrà trovare un equilibrio, una civiltà come la nostra, pericolosamente oscillante fra la straordinaria potenza delle sue tecniche e la tragica povertà dello spirito. E tuttavia lo stesso Prini, definendo il nichilismo «un effetto perverso della filosofia dell'esistenza», lo riconosce come una sua tendenza interna. In fatti, è proprio l'intensità con la quale il «mondo della vita» ha esercitato il suo richiamo sul pensiero filosofico ad essere inseparabile dal perenne scacco della ragione, dall'esperienza nichilistica. Un pensiero che invece postuli il fondamento, che si ancori alle eterne strutture dell'essere, non fa mai questa esperienza fino in fondo, non patisce mai questo totale scacco. Un fenomeno rivelatore quello della straordinaria recezione ebraica del pensiero kierkegaardiano che sta all'origine dell'esistenzialismo. Non c'è autore ebreo contemporaneo, si può dire, che non si sia confrontato con Kierkegaard: la sua «filosofia dell'esistenza» ha attratto non solo i filosofi — Hannah Arendt, Ernst Bloch, Lowith, Adomo (che su Kier¬ kegaard fece la sua tesi di laurea), Horkheimer, Lukàcs, Buber, Sestov, Benjamin, Wittgenstein, Rosenzweig, Jankélévitch, Lévinas —, ma studiosi strettamente legati alla tradizione ebraica come Scholem, Heschel e Fackenheim, letterati come Kafka, Canetti, Wiesel. Per Kafka, «Kierkegaard è un astro», da lui «emana tanta luce che un po' ne arriva in tutti gli abissi»: «Egli mi conferma come un amico». Norman Malcolm, amico e biografo, testimonia che Wittgenstein parlava di Kierkegaard «con espressioni quasi di timore reverenziale». Lévinas ha definito Kierkegaard «il primo filosofo che pensa Dio senza pensarlo a partire dal mondo», e giunge a farsi, in Difficile libertà, la domanda: «Si può ancora essere ebrei senza Kierkegaard?». Ma che cosa, in Kierkegaard, attrae così profondamente l'anima ebraica? Attraverso i temi dell'abissale distanza fra Dio e uomo, della fede e della sofferenza, del rapporto tra fede ed etica, ad attrarre è un pensiero non più riferito metafisicamente all'essere come fondamento, né strutturato in rapporto alle essenze, ma volto verso la concreta esperienza esistenziale dell'uomo. In Kierkegaard la coscienza ebraica riscopre insomma il carattere concreto del pensiero biblico e poi tradizionalmente ebraico; ritrova quelle «categorie» che, soprattutto attraverso la mediazione di Lutero e di Hamann, erano giunte fino al solitario, infelice pensatore danese, il quale le fa proprie con straordinaria intensità. A riprova di questo, le diverse forme del pensiero contemporaneo rivolte, come l'esistenzialismo, al «mondo della vita» sono fortemente segnate dalla presenza ebraica. La fenomenologia è ebraica nel suo iniziatore Edmund Husserl e nei suoi più vicini seguaci Moritz Geiger, Max Scheler, Adolf Reinach, Edith Stein. Dei rapporti della^psicoanalisi di Freud con l'ebraismo-'si è molto discusso. E l'attenzione alla temporalità torna insistentemente in Bergson come in Rosenzweig. Abraham J. Heschel, molto tradotto anche in Italia, ha approfondito, nel suo libro postumo Passione di verità (ed. Rusconi), il rapporto fra l'esperienza ebraica e l'esperienza kierkegaardiana in un parallelo fra il rabbi chassidico Menachem Mendl, detto il Kotzker (1787-1859), e il suo contemporaneo Kierkegaard: entrambi amano la verità con passione ardente e severa, dolorosa ed esclusiva. Ma la riflessione più radicale e più illuminante sul pensiero kierkegaardiano è quella del filosofo russo Lev Sestov, morto da ebreo a Parigi nel 1938. In Kierkegaard et la pbilosophie existentielle coglie la singolarità profonda del pensiero kierkegaardiano e dell'esistenzialismo in generale attraverso la contrapposizione di due modi antitetici di pensare, quelli che già Tertulliano identificava opponendo Atene e Gerusalemme: un modo proprio della fede, quello ebraico, e un modo proprio della ragione, quello greco. Sestov vede nella necessità logica che costringe ad accettare la conclusione di un sillogismo la sottomissione a una verità che non è Dio: in ciò consiste, per lui, quella «toncupiscentia irresistibilis» che spinge l'uomo a conoscere anziché a vivere, e che è una cosa sola con il peccato originale. * * Pietro Prini ricorda, en passante il nome, e l'opera, del filosofo ebreo russo, di cui Adelphi annuncia prossima la pubblicazione, dopo le ormai da tempo introvabili traduzioni di Bocca. Ma avrebbe meritato una maggiore attenzione da parte dello storico dell'esistenzialismo, proprio perché mette decisamente in discussione la possibilità di ricondurre il pensiero dell'esistenza all'interno del pensiero dell'essere. Per Kierkeggard, scrive Lev Sestov, «la filosofia speculativa è cosa abominevole, precisamente perché è un attentato all'onnipotenza di Dio. La filo- ' sofia speculativa si prosterna davanti alle evidenze; Kiergegaard proclama la filosofia esistenziale la cui sorgente è la fede che sormonta l'evidenza». Può chiamarsi ebraico-cristiana solo «una filosofia che si propone non di accettare, ma di sormontare le evidenze e che introduce nel nostro pensiero una nuova dimensione, la fede... La filosofia ebraico-cristiana non può perciò accettare né i problemi fondamentali, né i primi principi, né la tecnica del pensiero della filosofia razionale». E' posta tragicamente al bivio fra due opposti che si toccano: fede e nichilismo. Sergio Quinzio

Luoghi citati: Atene, Gerusalemme, Italia, Parigi, Roma