Il male oscuro della Biennale

Il male oscuro della Biennale LA RASSEGNA VENEZIANA E' IN CRISI: MANCANO DENARO, IDEE E CAPACITA' DI DECIDERE Il male oscuro della Biennale I grandi partiti ne stanno decidendola sorte - Intorno a un tavolo di ristorante, a Roma, due socialisti e due democristiani: accordo politico per un rilancio? - Le dimissioni di Gastone Favero e le accuse di «tirannia» a Paolo Portoghesi -1 casi di Carmelo Bene e Sylvano Bussotti Ma le difficoltà hanno radici lontane: dalla lottizzazione allo Statuto «sessantottino», all'instabilità che impedisce di programmare DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA — Lunedi a pranzo, in un ristorante romano vicino al Pantheon, c'erano a un tavolo due socialisti e due democristiani. Da- una parte sedevano Paolo Portoghesi, presidente della Biennale, e Bruno Pellegrino, responsabile culturale del psi; dall'altra Giorgio Sala, democristiano eminente in seno al consiglio direttivo della Biennale, e Pier Ferdinando Casini, responsabile culturale della de. Partire di qui, da questo pranzo, non vuol dire indulgere al pettegolezzo, ma confermare un fatto (la sorte della Biennale la decidono i partiti a Roma) e segnalare una novità: de e psi stanno ritrovando un accordo per affrontare insieme una questione brutale: o la Biennale si rinnova o naufraga del tutto. Tra gnocchi e abbacchio, la spaccatura tra i due partiti si va ricomponendo. Si rivedranno, sempre a tavola, la prossima settimana. Certo, si è parlato di come sostituire Gastone Favcro: il segretario democristiano della Biennale se n'è andato di brutto il 2 maggio accusando il socialista Portoghesi di tirannide. Una discussione tranquilla: «Abbiamo solo tracciato un identikit», dice Sala. «Non credo che sceglieremo un altro segretario di area dc<. Una rinuncia a sorpresa: si spiegherebbe con il fatto che la de sembra puntare alla presidenza. Presidenza Quando? Fra due anni e mezzo, quando Portoghesi avrà compiuto il suo secondo quadriennio? O prima? O forse è solo una mossa tattica per strappare più poteri alla funzione del segretario? Non sarebbe comunque un avvicendamento indolore, una presidenza de («La sosterremo», insiste Sala). La Biennale veneziana fa parte infatti di un sistema in cui compaiono anche la Quadriennale romana, guidata dal democristiano Rossini, e la Triennale milanese, pilotimi dal comunista Peggio. Scatterebbero immediate riperéù'ssiòhi lottizzatone. Oltre all'emergenza istituzionale, i quattro commensali hanno cominciato a mettere in primo piano il destino vero della Biennale: come rianimare la sua progettualità dissipata e languente, come risolvere la sua crisi d'identità, come renderla competitiva e di nuovo vincente con altre grandi manifestazioni in Italia e nel mondo. «Vogliamo un rilancio clamoroso», afferma Pellegrino. «La Biennale è un investimento per il Paese», assicura Sala. Sono concordi: agire subito, se no si dà ragione a Gianni De Michelis {«Questa Biennale è già morta»). Aleggia il centenario, che cadrà nel '95. Quella è la datacapestro, lo spauracchio che potrà suonare condanna o lode per una strategia culturale, per un'intera classe dirigente. Una scadenza che già stimola. Ci si avvia verso di essa in una situazione schizoide. Da un lato la Biennale è ancora un gran marchio internazionale, capace ad esempio di attrarre l'anno scorso 2357 giornalisti da tutto il mondo per l'esposizione d'arte, e altri 1958 per il festival del cinema. Dall'altro non sempre ce la fa ad essere all'altezza del prestigio che pure conserva, arranca vistosamente, s'impantana in un gioco di massacro fra risse, estenuazioni e colpi di scena. Gli ultimi casi dolgono ancora. Sono del maggio scorso, uno dei mesi più tormentosi degli ultimi decenni. La Biennale Musica ai Sylvano Bussotti è stata strapazzata dalla critica e trascurata dal pubblico. D'altra parte — fa osservare il musicologo Mario Messinis — gli hanno dato il via definitivo solo il 5 maggio, e il 21 è partito il programma. «Mai successo, nella storia della Biennale, un simile corto circuito». Pure scalpore ha suscitato l'happening di Carmelo Bene davanti allo sbigottito consiglio direttivo, il .26 maggio. L'attore ha preteso a modo suo il miliardo e mezzo per l'esperimento sul Tamerlano di Marlowe a settembre: un non¬ spettacolo, nel senso che sarà chiuso al pubblico, registrato dalle telecamere (della Rai?) e forse trasmesso. Un consigliere è uscito perché s'è sentito offeso: Ulderico Bernardi, della de. Aveva chiesto a Bene chiarimenti sulle spese. L'attore l'ha invitato ad andare a «fare queste chiacchiere al mercato», poiché per lui i miliardi sono «bruscolini». Bernardi allora ha scritto a Portoghesi protestando per non essere stato difeso. Un altro consigliere, Fabrizia Gressani Sanna, de, ha pure scritto a Portoghesi lamentando .che non c'era il numero legale quando s'è detto sì al programma di Bene. Un altro consigliere ancora, Stefania Mason Rinaldi, pri, racconta di «essersi immobilizzata, paralizzata, davanti a quell'uomo. La prepotenza mi fa quest'effetto». Senza dire del generale stupore per le teorie di Bene, uno slalom da Nietzsche a Derrida passando per Artaud: il lavoro sul linguaggio ha lo scopo di «sottrargli senso», di «restituirlo al gioco», di liberarlo cioè dai vincoli che la storia e la società gli hanno stretto attorno, appiattendolo da energia a funzione. Eppure, al di là dei clamori, le vicende di Bussotti e di Bene, i narcisi della Laguna, sono fortemente indicative di una situazione. Dice Portoghesi:. «Avevamo pensato a una Biennale tutta di artisti: Per il cinema abbiamo domandato a Bertolucci. S'è discusso anche di recuperare spettacoli di lettera¬ tura». Tutto ciò sarà pure una scelta estetica, ma in primo luogo appare quasi un'astuzia per risparmiare denaro. Una «nove giorni» di Bussotti, come quella di maggio, costa meno, molto meno di una serie di opere liriche e concerti con cantanti e orchestre al gran completo. Una serata invisibile di Bene costa meno, molto meno di un festival che chiami spettacoli da Stoccolma, Londra, Parigi. Fondi Scelte, queste di Bene e Bussotti, che hanno scatenato una «bagarre». E tuttavia, al di là delle polemiche, la Biennale sembra soffrire di mali di cui è sì causa, ma anche vittima. La mancanza di fondi, per esempio, appena evocata. «Da sei anni si amministrano sempre circa 12 miliardo', conferma Adriano Donaggio, da vent'anni addetto stampa. Il governo dà tuttora dieci miliardi fissi (cinque il ministero del Turismo e dello Spettacolo, cinque quello dei Beni culturali); il resto deriva da contributi degli enti locali, da proventi dei biglietti e da voci minori. Questo mentre sono aumentati tutti i costi. «Se nell'84 c 'erano otto miliardi per le attività culturali, oggi ce ne sono cinque e mezzo», constata il consigliere Umberto Curi, pei, direttore dell'Istituto Gramsci Veneto. Per un quadro complessivo della situazione, ecco i finanziamenti nell'89: un miliardo per il festival del cinema (che gode di un contributo straordinario di due miliardi e 800 milioni dal ministero dello Spettacolo); due miliardi e mezzo per gli «spettacoli» teatrali di Bene; 700 milioni per la musica; 700 milioni per l'architettura, necessari per pagare i debiti del concorso per il padiglione Italia; 150 milioni per alcune mostre d'arte; 200 milioni per l'Archivio storico delle arti contemporanee (Asac), una ricchezza mai abbastanza valorizzata dalla Biennale, una vera memoria storica di quasi un secolo d'attività; 300 milioni infine per non ancora definiti progetti speciali. Cinque miliardi e 550 milioni in totale. Davvero pochi, lamentano i consiglieri (il solo festival del cinema a Cannes pare metta insieme quattordici miliardi). Gli altri sei miliardi e mezzo in bilancio vanno per il personale (63 addetti) e per la gestione e l'attività nelle varie sedi. «Ma abbiamo un orgoglio, dice Portoghesi. Siamo in pareggio». Oltre alla mancanza di denaro, fra le radici del malessere troneggia lo statuto, nato nel '73 sull'onda della contestazione contro la cosiddetta arte borghese asservita al mercato. Tempi che videro quattromila api ronzare in un alveare allestito nel padiglione argentino e diecimila farfalle ecologiche volar via in piazza San Marco, subito mangiate dai colombi. Le accuse sono unanimi. Lo statuto è gravato da spirito sessantottardo, «con quegli appelli al territorio, al decentramento, alle istanze sociali da tutelare e rappresentare: cose belle ma sterili», come riconosce Curi. Caratteristiche che ronjtrastano con l'odierna voglia dì sveltezza e di realismo. Lo statuto prevede così che l'organo di governo della Biennale, il consiglio direttivo, sia composto da ben 19 consi¬ glieri da tutta Italia. Nelle riunioni non si presentano quasi mai tutti quanti. Eppoi lo statuto risulta burocratico: ancorando il personale al parastato, sancisce la coesistenza di funzioni amministrative e di politica culturale. «Sono sfibrata dalle decisioni sulle spese sia per le fotocopiatrici da comprare o da prendere in leasing sia per l'imbiancatura delle sale», mormora Stefania Mason Rinaldi, ordinatrice di mostre celebri come Venezia e la peste e Da Tiziano a Goya. «Siamo presi da un meccanismo perverso, soccombiamo alla sindrome dell'altalena fra microcosmo e macrocosmo. Mi interrogo: faccio cultura io? Che cosa combiniamo? Chiudiamo? No, discutiamo, capiamo, miglioriamo». La discordia Non basta. Un altro male, che però non sta scritto da nessuna parte dello statuto debba per forza accadere, è la discordia politica. La Biennale come specchio del Paese. Tanto per cominciare, i 19 consiglieri adesso sono in realtà 18. Si dice che i socialisti sono divisi tra gli amici di De Michelis e gli amici dell'ex sindaco Rigo, e così non ce la fanno a designare uno di loro. Sono nominati, i 19. dal Comune (tre), dalla Provincia (tre), dalla Regione (cinque), dal Consiglio dei ministri (tre), dai sindacati (tre: c'è anche Ottaviano Del Turco), dal personale della Biennale (uno). Più il sindaco. 11 risultato attuale è questo: sette de, tre psi, tre pei, quattro laici, un psdi. Quale governo allora? Era previsto una sorta di pentapartito. Ma le dimissioni del democristiano Favero da segretario hanno corrotto il disegno originario. I de si sono arroccati sull'Aventino. Aspettavano al varco l'approvazione del bilancio per far cadere PortOr ghesi. Invece sono subentrati i comunisti: «Per senso di responsabilità», dice Curi. Così l'accusa contro Portoghesi era.fino a ieri di eccessiva spregiudicatezza. «Pratica il pendolo, siamo sgovernati», denunciava Sala. L'insicurezza politica provoca vari danni. L'assenza di programmazione, innanzi tutto. «E'deleteria per musica e teatro, avverte Messinis. Occorrono anni d'anticipo per scritturare una compagnia, un 'orchestra, un artista, o per commissionare un 'opera». L'improvvisazione è poi quasi imposta dalla sfasatura tra il programma, che teoricamente può durare per un intero mandato, cioè per quattro anni, e il bilancio, che è annuale. Si potrebbe superare quest'ostacolo solo con un'azione coeretite e comune. Ma siccome appunto c'è stata finora una maggioranza estremamente volatile, è un obiettivo ben arduo da raggiungere, perché ogni parte politica ha le sue idee, i suoi critici, spesso i suoi artisti. Un ulteriore guaio che nasce dalle maggioranze ballerine è che non si riesce a controllare adeguatamente le spese. «Si procede per colpi di mano», si lamenta Sala. «Il caso Bene è esemplare. Non si è potuto vedere i conti fino in fondo. Dovrebbe tornare in consiglio. Andiamo verso una Biennale sempre più occupata da chi controlla appunto i bilanci: Guardia di Finanza e Corte dei Conti». Ricorda: «Quando entrai in Biennale come segretario, nel dicembre '83, la prima visita che ricevetti fu proprio di un colonnello della Finanza e di un procuratore della Corte dei Conti. Era per falli precedenti. Ma non fu lo stesso una cosa simpatica». Per Curi, in conclusione, la Biennale oggi, «a causa di tutti questi motivi, risulta priva di autentica linea culturale, di motivata e articolata progettualità». «Ma no, ribatte Portoghesi. Di progettualità ce n 'è fin troppa. Dobbiamo solo ritrovare l'accordo per poterla esprimere, rimuovendo le cause del malessere». Quell'accordo che forse sta rinascendo, a puntate, attorno al tavolo di un ristorante vicino al Pantheon. Claudio Al tarocca Venezia. Carmelo Bene ha suscitato scandalo alla Biennale chiedendo un miliardo e mezzo per il «Tamerlano» di Marlowe