Un Savoia sul cavallo di Van Dyck

Un Savoia sul cavallo di Van Dyck DA OGGI A TORINO LA GRANDE MOSTRA «DIANA TRIONFATRICE » Un Savoia sul cavallo di Van Dyck Nelle sale della Promotrice, al Valentino, l'arte di corte e devozionale del '600 piemontese - Nobili spettacoli e raffinate committenze in un ducato che si apriva all'Europa - Tesori nelle chiese di province orgogliose - Guido Reni, il Guerrino, Dauphin - Centotrenta pitture e sculture; 300 mobili, arazzi, libri, incisioni - Tra restauri e ricerche di 60 studiosi TORINO — Si inaugura oggi nelle sale della Promotrice delle Belle Arti al Valentino, dove resterà aperta fino al 24 settembre, la mostra Diana Trionfatrlce: l'arte di corte e devozionale del '600 piemontese. Circa 130 fra pitture e sculture, e più di 300fra mobili, arazzi, oggetti di arredo prezioso, incisioni, libri e rilegature, disegni di architettura, cartografie testimoniano la cultura ducale, con ambizioni e forme regali, che saranno conquistate nel secolo successivo. E' l'arte del Ducato fra Vittorio Amedeo 1 e Carlo Emanuele II, con al centro — simbolico, ma anche politico — le due mogli «Madame reali»: Cristina di Francia.figlia di Enrico IVe sorella di Luigi XIII, e Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, reggente nella minorità del futuro re Vittorio Amedeo II. Le sale, rese «intime» fra spazi e colore dall'architetto Viano con felice attenzione al tipo di oggetti d'arte e al tipo di cultura che esse ospitano, propongono due percorsi di immagine e di memoria storica. A sinistra si dipana l'arte di corte. A destra vengono illustrate l'arte devozionale al centro e nelle province, dal Cuneese alla Valsesia, e l'architettura e l'urbanistica nella capitale e nella «corona di delitie», Regio Parco e Mirafiori, Villa della Regina e Valentino, Rivoli e Venaria Reale: l'uno trasformata e le altre create, con la volontà proiettata verso le future funzioni e simboli di Stato regale europeo, che trionferanno nella stagione di Juvarra e dei nuovi decoratori di Palazzo Reale. Uno spettacolo meditatamente coordinato, ritmato, pensato da Michela di Macco e Giovanni Romano su una base aggiornatissima di studi e di ricerche di sessanta studiosi, in una fruttifera collaborazione fra Università e Politecnico, Soprintendenze, Archivi di Stato e Storico Civico. A essa hanno corrisposto, con risultati stabili per il futuro che non sempre le grandi mostre possono vantare (e questa, al di là di formule e patrocina, è di assoluta grandezza nazionale, e ben degna d'orgoglio), da un lato una globale campagna di restauri in gran parte finanziati dalla Cassa di Risparmio di Torino e dall'altro il catalogo-monografia scientificamente prezioso edito da Allemandi. La mostra è promossa dal ministero per i Beni Culturali e dal Comune. Ho parlato di orgoglio: per una città che tante, troppe volte lamenta fatiscente ed emarginazioni anche culturali, è un orgoglio legittimo e non effimero, affonda le radici in una ricca storia e in un rigore di iniziative, mostre, studi, ricerche sull'arte piemontese dal Medioevo all'Unità, che non teme nessun paragone. E' raramente luogo e arte di «grandi nomi»; ma è luogo e patria di opere e di forme visive e culturali con profonde identità e radici storiche, con legittima vocazione di ponte fra più territori culturali europei. I conseguenti studi e manifestazioni espositive non vogliono coerentemente battere l'esteriore grancassa del già celebrato, della cultura-spettacolo; possono invece, e lo fanno, scavare nelle ricche miniere di depositi e archivi del potere, di chiese di province orgogliose di proprie culture e identità, talora alternative al centro torinese; proporre la preziosità di forme e di materie nascoste nella «Cassaforte» di Palazzo Reale. Aprire insomma, per una non labile attualità e qualità di cultura ancora degna di tale nome le Torino è in grado di offrire ciò più e meglio di altri centri), il velario su nobili spettacoli di corte; su raffinate committenze che coinvolgono Van Dyck e Albani, Lanfranco e il cavalier Del Cairo, i primi e grandi specialisti napoletani di natura morta come Luca Forte e quelli rubensiani di quadri di caccia come Paul de Vos. E d'altra parte ricomporre le sparse membra della devozione formale di corte, da Guido Reni al Guercino.fino alla letterale, spettacolosa scoperta sotto il sudiciume, negletta nella Biblioteca della Basilica di Superga, della grande Ultima Cena firmata dall'anversese e rubensiano Baldassarre Mathieu; o proporre in parata di pittura sacra barocca per nulla provinciale — certo anche grazie ai ducali modelli di cui sopra — alcune tele dell'Istituto San Paolo già nella quadrerìa dell'omonimo oratorio: il Dauphin, dominante a corte come decoratore e ritrattista simbolico, il Caravoglia,punto di forza del Barocco autoctono, il genovese Raggi. Velario, spettacolo, oscurità devote di chiese e oratori che allora nel Ducato ricostituito da Emanuele Filiberto nelle sue varie e ricche realtà, di qua dalle Alpi, di territori e identità culturali, corrispondevano a ben precise e distinte realtà sociali, con ben precise e distinte richieste e funzioni alle magie e significati dell'oggetto artistico. E'merito primario della mostra condurci di tappa in tappa, di coerenza in coerenza dei vari nuclei (i quat¬ tro Elementi, vertice di Francesco Albani per il Cardinale Maurizio di Savoia, o la Guarnitura da caccia in palissandro e avorio, argento e oro, di altissimo artigianato bavarese, donato da Massimiliano I di Baviera in occasione delle nozze del figlio con. la sorella, di Carlo Emanuele II, Adelaide), nell'intimità privata, e pubblica di queste varie realtà. E' storicamente giusto che, nella metà anteriore del salone della Promotrice, il primo velario si spalanchi e sia spalancato dai membri, fra loro rissanti fino alla guerra, della famiglia ducale. La metafora del velario, dello spettacolo in scena, è fin troppo facile. Non solo perché la mostra è intitolata alla Diana trionfatrice, simbolo sotto il quale nasce la Venaria Reale di Carlo Emanuele II e della seconda Madama Reale. Ma penso anche allo straordinario telone di fondo del Dauphin, inviato dal Prado, in cui angioletti preparano letteralmente il meccanismo scenico, sollevando con improbabile delicatezza, esibendo in volo i loro muscoletti, il pesantissimo sontuoso broccato tabacco e oro di un baldacchino alle spalle dei duchi Carlo Emanuele e Maria Giovanna Battista; al centro il neonato Vittorio Amedeo viene offerto alla venerazione dei sudditi come un Gesù Bambino, ma alle corti europee le infatti finisce a Madrid) come annuncio della continuità del casato. E tre anni dopo la felice nascita danno spettacolo di se stessi, nell'elezione formale classica dei busti in marmi di Bernardo Falconi, i due genitori in vesti, e atteggiamenti scenici da idillio greco, di Adone e di Venere (poi trasformata in Diana dal diadema lunato). Sottile malizia scenica degli ordinatori è quella invece di aver voluto porre al centro e alle loro spalle il busto in marmo, del Duquesnoy, del Cardinaleprincipe Maurizio di Savoia, l'insidiatore e contestatore del ducato di Carlo Emanuele al momento della sua minorità e della reggenza di Cristina di Francia. A destra, sulla parete late¬ rale ai tre busti, Van Dyck fa cavalcare con la sontuosità rubensiana dello spettacolo di guerra l'altro contestatore filospagnolo, l'alleato del Cardinale (contro l'altro gran Cardinale, il Richelieu), Tommaso di Savoia Cartonano. E di fronte, l'altro e più sottile e più autonomo volto intimo e cortigiano dello stesso Van Dyck raffigura ì tre figli di Carlo I d'Inghilterra (due saranno Carlo Il e Giacomo II, la terza, Enrichetta Maria, legittimerà la successione al trono d'Inghilterra dì Guglielmo d'Orange dopo la «Pacifica Rivoluzione»). Il quadro fu inviato dalla madre Enrichetta Maria alla sorella Cristina di Francia, da Londra a Torino. Vertici d'arte nel senso tradizionale, in una circolazione di «grande» storia di illustri potentati. Ma la storia del «piccolo» Ducato, che, fra madri e figli e sii, nuota con gran travaglio ma con notoria agilità in mezzo a questi flutti, è soprattutto viva nello stupendo e variegato tessuto d'arte — per cui i termini di maggiore e minore sono assai stantii — dispiegato di sala in sala. Con valori continuamente nuovi e rivelati: un busto in bronzo, capolavoro del già ricordato Falcone, di Giovanni Battista Trucchi di Levaldigi, gestore delle finanze ducali del secondo '600; la severissima stupenda pala del Molineri da Sant'Antonino a Bra; la piena rivelazione di un grande valsesiano, il Gianoli. Infine, ma in primis, l'apposita sala finale dedicata ai dipinti sacri del grande frescante Andrea Pozzo, fin qui noto, per la sua fase torinese del 1675-80, più che altro per le volte dei Santi Martiri a Torino e di San Francesco Saverio a Mondovì: preludio ai cantieri settecenteschi. Marco Rosei Anton Van Dyck: «I tre figli di Carlo I d'Inghilterra», tra le opere in mostra da oggi a Torino, nelle sale della Promotrice