Questa Palma all'americano per coraggio o per snobismo di Stefano Reggiani

Questa Palma all'americano per coraggio o per snobismo Questa Palma all'americano per coraggio o per snobismo DAL NOSTRO INVIATO CANNES — Tutti a sfogliare cataloghi perché il nome di James Spader, premiato come miglior interprete maschile, non era rimasto nella memoria; ma il nome di Steven Soderbergh, il regista di 26 anni, l'autore debuttante del film premiato con la Palma d'oro, «Sex, lies and videotape», era molto familiare e i crìtici ci avevano speso più di un pensiero. Ma la premiazione di Cannes è un atto di coraggio (come ci piace sperare) o di snobismo? La giuria presieduta da Wenders ha tagliato fuori completamente il giapponese Imamura e l'americano Spike Lee, d'altra parte il giovane Soderbergh ha dei precisi vantaggi, l'età e la contemporaneità dei mezzi. Come ricordate, si racconta la crisi di un giovane che vede la vita e le donne solo ormai attraverso i nastri del videoregistratore. Interverrà una donna nevrotica, Andie Macdowell (noi avremmo preferito lei nella premiazione) a fargli riprendere contatto con la realtà e con l'amore. In parte amara l'esperienza italiana, anche se il Premio Speciale ex aequo a Tornatore per «Nuovo Cinema Paradiso» ha il suono di una rivincita e soprattutto vale come riconoscimento a un autore che ha saputo reintegrare il proprio universo poetico, tagliando i fronzoli inutili. E restano in mente le calorose accoglienze del pubblico ai prodotti italiani: non è solo il vagheggiamento sul cinema che finisce (c'era anche Scola in gara) il tema amato dalla gente. Anzi, quest'anno il festival s'è distinto per una certa «normalità». Ma proprio per essere stato un festival medio, con l'affiorare ogni tanto di Giornate Ideal,'di anteprime cioè che meglio avrebbero figurato in sala pubblica, è stato anche un festival allarmante, ha gettato nella normalità alcuni temi esplosivi. Non si sa se compiacersi per la maturità con cui ormai si ragiona di tutto o inquietarsi per l'indifferenza tra cui tutto passa. Ma forse bisogna inquietarsi. Prima d'ogni altra cosa, l'accettazione della violenza. Ci è stata offerta in tutti i modi, dalla passività alla partecipazione attiva. Il più importante film americano, «Do the Righi Thing», Fai la cosa giusta, era piuttosto una spiegazione della violenza ineliminabile nei ghetti urbani secondo Malcolm X che una illustrazione di Martin Luther King, caro all'autore. Perfino la goffa violenza del film americano conclusivo, fuori concorso «Old Gringo» (con quei contadini legalitari che rivendicavano antichi diritti) era un frutto della necessità della rivolta. Non parliamo dei giapponesi di «Pioggia nera», sottoposti a una violenza assoluta e inevitabile, come se il contagio atomico fosse un terremoto o un temporale. E cosi 0 canadese «Jesus de Montreal» è un estratto della nuova violenza universale (Cristo non può rinascere, dopo essere stato ucciso per errore) e l'ex ragazzo prodigio, Jarmusch {«Mystery Traiti») gira nella stabile violenza urbana (quel quartiere nero di Memphis cosi sfatto e minaccioso). E non è la violenza dell'intolleranza popolare, la violenza dei media che condanna in Australia un' innocente («A Cry in the Dark»)! E non è la violenza planetaria che minaccia l'Amazzonia e i suoi abitanti? Di più: questo festival «normale» ci ha portato, è vero, un vincitore di 26 anni, ma ha dipinto una vecchia eresia, la famiglia come luogo di mostri («Sweetie»), intrinsecamente folle («Lost Angels»). E se qualcosa non va nei bilanci domestici, «Rosalie» ci insegna l'unico rimedio universalmente accettato: rubare. Stefano Reggiani

Luoghi citati: Australia, Cannes, Memphis