Spike Lee: sul mio film la protezione dell'Islam di Lietta Tornabuoni

Spike Lee: sul mio film la protezione dell'Islam ersone di Lietta Tornabuoni Spike Lee: sul mio film la protezione dell'Islam CANNES — Spike Lee, considerato senza troppo esagerare un simbolo della rinascita della giovane cultura nera americana, autore di «Do the Righi Thing» (Fa' la cosa giusta) presentato oggi al festival, racconta che per poter lavorare nella zona di Brooklyn dove è ambientato il film, storia di tensioni razziali newyorkesi tra italoamericani e neri, ha dovuto ricorrere alla protezione di Fruit of Islam: «Giravamo spesso di notte, la gente ci assediava, nelle vicinanze c'erano tre pericolose Crack House, case dove si vende e si usa (illegalmente, si capisce) quella droga micidiale che è il crack. Così abbiamo chiesto aiuto a Fruit of Islam». Cos'è, una polizia privata? «E' l'esercito privato del reverendo Louis Farrakhan. Sono musulmani, come Malcolm X». Lui non è musulmano («sono stato allevato nella Chiesa Battista, da bambino»), ma tra i due grandi leader neri morti assassinati che ammirava, Malcolm X e Martin Luther King, oggi sceglierebbe Malcolm X: «La violenza razzista può essere vinta soltanto dall'intelligenza. Masè ti trovi davanti gente non intelligente, l'unica autodifesa è rispondere alla violenza con violenza: questo ogni nero lo sa, inutile stare a raccordarsi storie»., . .. ...... I conflitti razziali si sono molto aggravati, secondo lui: «Per i latinoamericani, per i neri, per tutti, lo scontro è peggiorato, negli ultimi anni». Nel suo film lo scontro nasce tra italoamericani e neri: «Sono quelli i gruppi dominanti a Brooklyn, e il film si rifà all'Howard Beach incuian accaduto nel 1986: una banda di ragazzi bianchi aggredì tre ragazzi neri davanti a una pizzeria, e uno dei neri ci rimise la vita». Il luogo del film è infatti una pizzeria italiana: «Anche i neri amano la pizza, come tutti a New York». E' un film politico, dice, come tutti i suoi film pieni di musica, di comicità, di danze; lo sarà anche il prossimo, «Love Supreme», intitolato come un pezzo di John Coltrane e dedicato al jazz newyorkese contemporaneo; lo saranno tutti, sempre. Trentadue anni, scapolo, senza figli, amico del candidato nero alla presidenza americana Jesse Jackson con cui va alle amate partite di baseball, Spike Lee è un uomo intelligente, molto bello, molto elegante: tutto vestito di bianco, due semplici braccialetti neri al polso, un classico diamante all'orecchio sinistro, occhiali, e sul petto un grosso medaglione bianco al centro del quale sta la nera sagoma d'un poliziotto inquadrato nel mirino d'un fucile. Vive come tutti, dice: «Vivo a Brooklyn, non a Hollywood. Vivo in mezzo alla gente. Non ho automobile, prendo la metropolitana. Ho soltanto due televisori, alla tv vedo esclusivamente lo sport, le notizie preferisco leggerle sui giornali Nel quartiere nessuno si gira a guardarmi: mi vedono tutti i giorni». Dice che le storie del giovane movimento di cineasti newyorkesi trentenni, lui, Jarmusch, Liza Burden, che stanno sempre insieme, frequentano gli stessi bar e locali, sono legati da amicizia complicità e scambio, sono tutte inventate: «Miti dei giornali. Non ci vediamo mai». Non parla male degli artisti neri diversi da lui: «Non è che perché sei nero devi fare per forza film militanti come i miei. Ciascuno fa quello che vuole. Eddie Murphy è un comico e fa ridere: mi piace, mi piacerebbe lavorare con lui». Non parla male della pubblicità: «La faccio. Spot per la cioccolata Mars, e con Michael Jordan». Non cerca, per i suoi film, soltanto il pubblico nero: «Ogni regista ha un suo pubblico particolare, neri, intellettuali, donne, ebrei, appassionali d'ecologia o di sport: ed ha anche un pubblico generale, se è bravo». I

Luoghi citati: Hollywood, New York