« Lapsicoanalisi imbavagliata» di Lorenzo Mondo

Hugo amico mio I CLASSICI NOSTRI CONTEMPORANEI Hugo amico mio Sia concesso un ricordo personale, il ricordo di un lontano inverno di malato. Riguarda un ragazzo che non aveva libri in casa a eccezione dei Promessi sposi, che del resto si era appena limitato a sfogliare, e di cui aveva soltanto sentito leggere qualche brano. In quei giorni dunque, mentre stava a letto, gli capitò tra le mani Notre-Damede Paris di Victor Hugo. Ne fu subito catturato, per qualche cosa di famigliare e di diverso che il romanzo sembrava contenere. C'era una successione di vivide scene in cui il sapore dell'avventura sembrava sprigionarsi con più forza che nei libri usualmente frequentati e trovare, nello stesso tempo, una diversa, misteriosa legittimità. Parlo dell'elezione del papa dei folli e dell'esame per essere accolto tra i ladri della Corte dei miracoli; parlo di Esmeralda processata come strega e dell'esercito dei mendicanti all'assalto di NotreDame. Ma si imponeva soprattutto il ritratto della ijrande cattedrale, custodita dalla figura grottesca di Quasimodo che si affacciava tra le agive o saltava sui doccioni rome un gatto, lnduceva an:he a riflettere la convinzione Ji Hugo che a decretare il tramonto delle chiese romaniche e gotiche, il loro rovinoso abbandono, più che l'insulto del tempo e degli uomini, era stato Gutenberg. L'invenzione della stampa e dei suoi fogli leggeri aveva fatto invecchiare e morire le Bibbie di pietra. L il romanzo di Hugo prendeva allora, tra le mani esangui, il peso di un macigno. Perché mi sono azzardato a parlare di un libro che non ho più riletto e che probabilmente non rileggerò? Perché ha segnato per me uno dei primi, confusi incontri con un classico. Il quale, tra l'altro, come sarebbe accaduto con Dickens e con Stevenson, non perdeva importanza per la sua relativa leggibilità. Per quella che sarebbe apparsa una popolarità incommensurabile — a parte ogni giudizio di valore — con quella di un Verga o di un Fogazzaro. Va da sé che, intruppando Notre-Dame tra i classici, escludo ogni precisa storicizzazione del termine, si tratti della disputa con i romantici o, più indietro nel tempo, della «querelle des anciens et des modernes». Classico è un libro che appartiene al giacimento di una lingua e di una cultura; che per un ragguardevole periodo di tempo e stato ritenuto degno di lettura e di memoria; che ha conseguito una sufficiente stagionatura e, magari soffrendo di una temporanea dimenticanza, sta lì a disposizione di un lettore o di uno scrittore che sappia attivarne le energie latenti. Mi rendo conto che si tratta di una accezione estensiva del classico, ma si accompagna alla persuasione, ben altrimenti severa, che una autentica letteratura non può svilupparsi senza la coscienza di un retroterra dal quale attingere nutrimento secondo le proprie esigenze, secondo i personali appetiti. Esiste naturalmente una accezione più ristretta ed esclusiva della parola, che facciamo nostra quando sentiamo la necessità di misurarci con altri parametri. La più esigente è quella di Eliot, formulata in un saggio famoso. Egli ravvisa l'apice della classicità nella parola maturità: maturità di una lingua e di una cultura che si accompagna prodigiosamente alla maturità di un singolo talento: «... il classico — sono parole di Eliot — deve esprimere il massimo possibile dell'intera gamma dei sentimenti the costituiscono il carattere! nazionale dei parlanti una lingua... Quando un'opera letteraria, oltre a tale comprcnsività in rapporto alla pròpria lingua, possiede un pari valore in relazione a diverse letterature straniere, pqssiamo concludere anche per la sua universalità->. !E' noto che Eliot, a forza di distinguere, finisce per riconoscere paradossalmente questa piena possibilità soltanto a uria letteratura espressa da uria lingua come il latino, morta dopo avere raggiunto il suo culmine espressivo. Tanto da compiacersi che la lingua inglese non possedesse, pena l'esaurimento, una simile compiutezza. Eliot trovava un valore assolutamente esemplare in Virgilio. Enea, che è creatura del Fato, che si annulla e si ipostatizza nel destino di Roma, è quasi un modello fissato una volta per tutte, per una Europa almeno la cui tessitura continua a essere, nonostante tutto, romana. Ma c'è un altro autore che ci aiuta a stabilire un più equilibrato e meno reverente rapporto con i classici, con i grandi classici. Mi riferisco a Renato Serra, autore del saggio «Intorno al modo di leggere i Greci». Il caso è tanto più significativo in quanto Serra confessa in limine la sua frustrazione e disperazione di moderno davanti ai capolavori del passato remoto che il tempo sembra volerci sottrarre e ringoiare, ridurli a reperti frammentari di una necropoli. «La poesia dei Greci — scrive Serra — noi non la possediamo più. Le parole scritte sono un simbolo. Noi non le leggiamo come loro, non poniamo l'accento della nostra voce e l'enfasi del nostro spirito là dove essi la ponevano». Ma è poi lo stesso Serra a rilevare, con la sua nervosa e ombrosa sensibilità, che la parziale incomunicabilità tra i moderni e gli antichi trova compensazione e accrescimento nella diversa lettura che le generazioni danno di un classico. Così, individua ai suoi tempi, proprio nell'apprezzamento dei Greci, il segno di una svolta: «Piace la Grecia. Ma non per quel che già ebbe di esemplare e di classico; piace anzi in quel che ha di più lontano da quello stampo di perfezione gelata; piace come romantica e barbara, disordinata e colorata; piace soprattutto nella sua realtà autentica, nel suo sapore, come dicono, di cosa vissuta»: vissuta all'interno di una nuova coscienza, «da uno spirito nuovo, indipendente e leggero, curioso e radicale». Basti pensare quanto ha contato la Grecia per uno scrittore come Pavese, ai suoi Dialoghi con Le neh che, partendo da una suggestione leopardiana, concludono la parabola decadentistica che passa attraverso Nietzsche, D'Annunzio e il Frazer del Ramo d'oro. Basta pensare a Fenoglio che — spostato su un altro versante di classicità — anima di bibliche metafore le sue storie di guerra partigiana (e qui giunge irresistibile il ricordo di Auerbach che, in Mimmi, poneva all'origine della letteratura d'Occidente, quali insostituibili pilastri, Omero e la Bibbia). Le parole di Renato Serra, il suo riferimento a uno spirito nuovo «curioso e radicale», ci suggeriscono l'atteggiamento che dovremmo tenere verso i classici: una rilettura, un confronto, che per non riuscire paralizzante, non deve proibirci la forza di una agonistica reinvenzione. Tenendo presente, questo sì, oltre alla capacità dei classici di reincarnarsi nei nostri miti, nei nostri libri, la loro aspirazione alla totalità. Vale la pena citare, in proposito, il recente libro di Gian Luigi Beccaria, Le forme della lontananza, dove si esaltano le «strutture forti della letteratura, nelle due polarità, sublime e popolare», dove si esaltano le pagine «che hanno meditato sui pochi grandi accenti essenziali del destino». E ricordo ancora il grande significato che ebbe Dante per uno scrittore come Primo Levi: imparato scolasticamente, ha finito per calarsi nelle strutture, nelle immagini e nelle metafore di un'opera così terribilmente sanzionata dalla vita: nel primo libro, 5* questo è mi uomo, e nell'ultimo, / sommersi e i salvati, tributario fin nel titolo della Commedia. Parlavo prima di totalità, la quale può essere, beninteso, continuamente delusa e sbarratà'comé là porti del Q/r stello kafkiano, ma cjie viene testardamente riaffermata e perseguita. Ed è qui che la parola e l'idea di classicità (questa ricerca e approssimazione senza fine) si riverberano sui nostri contemporanei: su quelli che, al di là della vanità, del facile successo, della banalizzazione della scrittura e dei sentimenti, inseguono le tracce di una letteratura che duri: intesa come conoscenza, come condivisione di tutto ciò che l'uomo, nei millenni della propria vicenda, ha patito e sognato. Che si sentono, qualunque sia per essere la loro riuscita e il loro destino, alunni dei classici. / Lorenzo Mondo Victor Hugo

Luoghi citati: Europa, Grecia, Roma