Corrida in piccolo deserto in grande di Gianni Rondolino
Corrida in piccolo deserto in grande Alla Settimana della critica Corrida in piccolo deserto in grande «Duende» di Junod e «Louss» di Banhadj CANNES—Dieci lungometraggi che concorrono al premio «Camera d'or», più nove cortometraggi. Può essere il programma di un Festival cinematografico, e invece è solo quello della 28a Settimana intemazionale della critica francese, una delle molte sezioni di questo mastodontico Festival di Cannes. Come spesso accade, alla quantità non sempre corrisponde la qualità, e l'offerta Indiscriminata di prodotti provenienti da tutto il mondo rischia di appiattire il panorama, livellando film d'autore e opere di consumo, ricerca individuale e spettacolo popolare. Questo è anche il rischio della Settimana della critica, che si è dilatata oltre misura, debordando dai suol abituali confini di sette giorni Ma è un rischio che a volte si può correre, se poi, fra le molte proposte, qualche piccolo capolavoro salta fuori Prendiamo, ad esempio, Duende, opera prima dello svizzero Jean-Blaise Junod. E' un film spettacolare? E' un documentario? E' il ritratto veritiero di un giovane torero o la ricerca personale, estetica e poetica, di un autore quarantenne? Si potrebbe dire che è un po' tutto questo, e che il suo fascino sottile nasce dalla mescolanza dei generi, delle forme, delle intenzioni. Certo, dopo gli innumerevoli film sulla corrida e sul mestiere di matador (non ultimo quello provocatorio di Almodovar), sembrerebbe difficile, quasi impossibile, mostrare ancora qualcosa di nuovo, di interessante. Invece Junod c'è riuscito, perché ha puntato la sua cinecamera, discreta e partecipe, sui piccoli fatti quotidiani, sulla meticolosa preparazione del giovane torero, sul mondo della corrida visto dall'interno. Ed è questa quotidianità, immmersa nel più vasto ambiente della Spagna provinciale e tradizionale, a fare di Duende un'opera introspettiva, acuta, persino inquietante: il ritratto di un giovane che diventa il ritratto di un intero Paese. E' un po' quello che accade anche in Louss (Rose del deserto) dell'algerino Mohamed Rachid Banhadj anch'egli quarantenne. Qui la quotidianità si carica immediatamente di tensione, si colora dei toni del dramma. In un'oasi sperduta nel deserto, a più di 700 chilometri da Algeri, vive, insieme alla sorella Zineb che lo accudisce, il povero Moussa, handicappato dalla nascita, senza braccia, che si trascina a fatica su una sola gamba. E' un mondo chiuso, duro, disumano, in cui la gabbia del deserto, le rocce, il vento paiono simboleggiare la stessa condizione umana, la solitudine dell'individuo, la sua morte interiore. Ma lo sguardo del regista— che pure è attratto dal simbolo—si posa sui gesti, sulle azioni d'ogni giorno, sui volti dei personaggi, su quella realtà minuta che scandisce la monotonia del quotidiano. Cosi 11 dramma, che pure c'è, si scarica progressivamente della tensione iniziale, si svuota degli elementi più facilmente spettacolari La vita nel deserò passa attraverso l'esistenza difficile, apparentemente Insopportabile, a volte persino intollerabile, di Moussa: una vita che noi seguiamo con partecipazione, con affetto, ma senza piagnucolosa commozione. Perché Benhadj non vuole commuoverci, ma farci pensare, colpirci nel profondo, scuotere la nostra indifferenza, n suo stile rigoroso, concreto, realista, è la guida migliore per introdurci in un mondo sconosciuto, la cui «verità» non ha bisogno di inutili formalismi per apparire in tutta la sua autentica dimensione umana. Gianni Rondolino
Persone citate: Almodovar, Benhadj, Blaise Junod, Junod, Mohamed Rachid
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