Le sabbie mobili dell'Io

Le sabbie mobili dell'Io POLEMICHE IN ITALIA A CINQUANTANNI DALLA MORTE DI FREUD Le sabbie mobili dell'Io E' il disorientamento la diagnosi che prevale - Augusto Romano, junghiano: «Figura-perno di questa sindrome è la madre, insieme dispensatrice di sicurezza e negatrice di autonomia» - De Marchi: «Cresce anche l'angoscia della morte, ma Freud e Reich non hanno risposte» - Tra i pazienti in aumento i reduci del '68 e gli ultrasessantenni MILANO — «Chi va oggi dallo psicoanalista mostra un'assoluta normalità, ma è infelice». E' l'esperienza di Aldo Carotenuto. E Giovanni Jervis: «La maggior parte dei miei attuali pazienti soffre di fragilità dell'io, cioè di insicurezza e di angoscia da abbandono». Silvia Vegetti Fimi: «Ieri predominava la miseria sessuale, adesso la miseria affettiva. Si avverte l'esigenza di legami stabili e profondi». Renato Sigurtà: «Colpisce la mancanza di fiducia in se stessi». Umberto Galimberti: «La sofferenza più diffusa deriva dalla mancanza di identità. Non si trova un senso alla propria vita». Insicurezza, disorientamento: questa la diagnosi più frequente. E tuttavia gli psicoanalisti avanzano cautele e difficoltà: dicono che ogni paziente è un caso a sé, che ogni analista ha la sua visione, che si fa l'analisi di individui e non di un'epoca o di una società. Rifuggono quindi da considerazioni generali, perché temono di cadere in forzature che sanno di positivismo, di semplificazione bugiarda. Non a caso mancano statistiche di questo tipo, ed è un difetto sottolineato dagli oppositori. Si ricorda un solo saggio recente sull'argomen¬ to, di Emilio Gaddini, sulla Rivista di psicoanalisi, cinque anni fa: vi si diceva in sostanza che sono cambiati i pazienti ed è cambiata la psicoanalisi, perché questa adesso ha la vista più ampia e più penetrante, sa riconoscere cioè nuove forme e nuove origini di sofferenza. Valutato tutto ciò — rilevano allora gli psicoanalisti — come possiamo fare paragoni tra i pazienti del passato e quelli dei nostri giorni? E che attendibilità può avere un confronto tra gli stessi nostri pazienti attuali? Resta alla fine semplicemente questo: l'insicurezza, nei suoi tanti nomi, nelle sue mille forme e nelle sue mille cause, è il disagio più diffuso. «L'insicurezza è oggi favorita e penalizzata nello stesso tempo» chiarisce Augusto Romano, junghiano. «E' favorita perché i valori tradizionali e le strutture sociali e familiari sono in crisi. E' penalizzata perché questa società industriale ha un pessimo rapporto con la debolezza, la vecchiaia e la morte. Le immagini che essa ci manda sono immagini forti, che inculcano la passione del decidere e del perseguire scopi in modo lineare e determinato». Cosicché «sbagliare è un lusso, essere incerti è indizio di immaturità, gli aggiustamenti sono perdita di tempo, la cura di ciò che in noi è bisognoso viene vissuta come segno di infantilismo». Ecr co quindi il conflitto: ci si vergogna della debolezza che coviamo dentro e ci si ostina a sviluppare un comportamento coerente con quell'ideale di forza che ci viene da fuori. Nasce una «divaricazione tra conscio e inconscio». Finché siamo sommersi dalla debolezza che non vogliamo riconoscere: su di noi cala l'inautenticità, «l'Io si ingorga, l'esistenza diventa priva di significato». E si va dall'analista. Romana racconta che spesso si cerca di sfuggire alla complessità delle situazioni rendendole fin troppo semplici e unilaterali. Numerosi suoi pazienti sono ad esempio «reduci del '68 e dei movimenti extraparlamentari e femministi». Per molti di loro il '68 (come anche le esperienze simili negli Anni Settanta), è stato «un salto al di sopra di loro stessi», si è rivelato un tentativo di «razionalizzare, col sostegno dell'ideologia, la paura del rapporto con le difficoltà personali». Dicevano che il privato è pubblico, come dire che non esiste. «E se il privato non esiste, io non ho problemi privati: negando la parola, spero di eliminare anche la cosa. Un espediente magico». Allo psicoanalista accade così di scoprire, sotto la maschera sociale, «un bambino piccolo e vorace, che proprio per questa voracità appare incapace di amare». L'amore infatti, se è amore di un'altra persona, presuppone una certa distanza frale parti, non va d'accordo con la «frequente aspirazione alla simbiosi, alla fusione». Sulla scena appare la famiglia, con i suoi «intrichi di reciproca dipendenza, grovigli che alimentano possessività, gelosie, timori, e un sentimento profondo e disperato di incolmabilità, un sentirsi come un pozzo senza fine». E acuta è la crisi di identità sessuale, del proprio essere uomo o donna- vi si riflette la crisi dei ruoli tradizionali, ne nascono tensioni, paure, cadute di desiderio. In questa sindrome di disorientamento, «non è forse casuale che la figura in assoluto prevalente, nelle fantasie dei pazienti, uomini e donne, è quella della madre». La madre è da un lato dispensatrice di sicurezza («mater e materia hanno la stessa radice linguistica: la madre-terra, la madre nutrice»), dall'altro trattiene i figli presso di sé, nega loro autonomia. Il padre sembra quasi non esistere più. «E' descritto come il signore che lavora, torna a casa, guarda la tv». Le madri sono vissute come «ambiziose, assertive, esigenti, anche ricattatorie, quando ti impongono qualcosa dicendo che è per il tuo bene». Sono loro che interpretano «la vecchia parte del padre ottocentesco». Il tema del padre emerge invece come «nostalgia, rancore, recupero paradossale di qualità femminili». Perché molti padri sviluppano sentimento e dolcezza. «Numerosi pazienti mi raccontano: mio padre mi cantava la ninna-nanna, mi prendeva sulle ginocchia, giocava insieme a me, mi consolava di nascosto da mia madre. E poi nell'ufficialità familiare si rimetteva dietro mia madre. Il bimbo si sentiva, si sente tradito». Augusto Romano aggiunge che diverse persone sognano, da adulti, di attraversare guai scolastici perché non sono preparate in storia. Il significato sarebbe che queste persone «non si sono riappropriate della loro storia personale, non hanno accettato il loro passato». Compito dell'analisi è allora non di distribuir loro certezze, perché la psicoanalisi non è un'ideologia, ma di metterle in contatto con la loro parte negata, di aiutarle a far pace con se stesse. «L'infelicità è quasi sempre vissuta come scandalo, perché sonnecchia in noi il mito del paradiso terrestre. Invece dolore e insicurezza sono la condizione stessa dell'esistere. L'io si rafforza, affronta meglio le difficoltà, diventando più duttile». A questo tipo di sofferenza, che non appare all'esterno, corrispondono sintomi di solilo discreti. Gli psicoanalisti non incontrano quasi più paralisi o cecità isteriche, manie ossessive e altre manifestazioni clamorose. «Una voltalesomatizzazioni erano colossali», spiega Romano, «forse perché in una società rigida era quello l'unico modo di mostrare un disagio su cui era difficile porre domande e rispondere. Adesso i sintomi sono invece vissuti all'interno di un malessere di cui si ha consapevolezza. Ieri uno veniva da me e mi diceva: io non dormo la notte. Oggi mi dice: ho dei problemi e fra l'altro non dormo la notte». Da questo punto di vista sembra quasi a Romano che la psicoanalisi «abbia allentato i rapporti con la medicina e la biologia». Allo studio dello psicoanalista adesso si affacciano anche persone al di sopra dei sessantanni. «Sono sempre più numerose» racconta Aldo Carotenuto. «Il mondo gli è cambiato sotto gli occhi, temono di avere sbagliato la loro vita, sono prese da angoscia. Le aiuto per così dire a riammobiliare il loro passato, a cambiare disposizione e prospettiva agli eventi». Cosi come aumentano i giovani: «Si sentono abbandonati del padre e dalla madre, non perché questi siano effettivamente lontani, ma perché vivono i ritmi e i lavori d'oggi. Molti adolescenti ne soffrono». Stessa diagnosi da parte di Adriano Ossicini, senatore del pei, uno dei principali artefici della legge che istituisce l'albo per psicologi e psicoterapeuti. Ossicini insegna Psicologia generale alla Sapienza, a Roma, ed è specializzato in psicoanalisi infantile. Dice che «le nuove figure di genitori hanno reso il bambino sempre più isolato, non lo proteggono, non forniscono modelli stabili». Un altro motivo di sofferenza oggi più diffuso è l'angoscia di morte. «Non la paura, che è un sentimento di fronte a un elemento preciso», precisa Umberto Galimberti. «L'angoscia è caratterizzata dal fatto che non ha oggetto. E che cos'altro è quell'oggetto nullo, quel non oggetto, se non la morte? Prende allo stomaco, alla gola. Non dà tregua, esplode in crisi violente». Continua: «Quest'angoscia colpisce soprattutto le donne, perché hanno maggiore confidenza con la morte: la vita la generano, hanno potere di vita e dunque di morte. A un certo momento questo potere declina. E più la vita è resa sinonimo di potenza, sessualità, giovinezza e bellezza, più la vita stessa sembra venir meno. Subentra la morte, inconfessata. La gente non ha rapporto con il dolore. Viene in analisi sollecitata da un desiderio infinito di felicità». Galimberti ricorda un caso che lo ha molto colpito. Da lui veniva una donna di 41 anni. Un giorno gli disse di avere un tumore al polmone. Volle continuare l'analisi ugualmente. «Sapeva che sarebbe finita dopo sei mesi, ma la morte non la temeva più. L'aveva interiorizzata a tal punto che ci conviveva. Era persino serena. Questo ho imparato, e lo dico alle mie pazienti: la fine è una categoria radicale, occorre immetterla nel nostro essere e in ogni cosa che facciamo, come possibilità i e ■ presenza continua». Polemico è invece Luigi De Marchi (lo scrittore Emilio De Marchi era fratello di suo nonno), il profeta di Reich in Italia. «Non vadopiù d'accordo né con Freud né con Reich. Un paziente diceva che aveva paura di morire e loro gli rispondevano che quella paura nascondeva un'altra paura, della castrazione o dell'orgasmo». Invece per De Marchi la scoperta della morte è all'ori 1|j:|!!, gine della rimozione primaria i su cui si è eretta da sempre e ovunque la civiltà. Ha ripensato tutta la propria formazione e ci ha scritto su Scimmietta, ti amo (Longanesi). Frequentano infine gli psicoanalisti nuove persone dai tratti più sfumati, tanto dolorosi quanto sfuggenti. Li racconta Elvio Fachinelli. Come i pazienti, che si affacciano sempre più spesso, per i quali «l'analista è una specie di boa», un appiglio che si incontra nelle lunghe nuotate dell'esistere. «Saltano le sedute, quando vengono stanno zitti. Gli basta così». Oppure coloro che sono afflitti da speciali inadeguatezze di fronte alla vita. Alcuni sentono di non avere un volto preciso, si scoprono ameboidi e fluttuanti. Altri invece patiscono il volto che gli altri via via gli affibbiano. Altri ancora cambiano lavoro di continuo e si scoprono estraniati, non coinvolti, oppure inetti, senza qualità. Tutti accomunati, costoro, da un io sfrangiato, persino infranto. Fachinelli rintraccia per professione le forze più misteriose che si sprigionano in noi. Ha appena pubblicato un libro molto suggestivo, La mente estatica (Adelphi). Un'indagine appunto sull'estasi, intesa non come rapimento ineffabile o torpore improduttivo, ma addirittura come condizione di creatività scientifica e artistica: estasi come illuminazione, corto circuito, trasalimento penetrante. «Uno stato mentale misconosciuto perché fuori dal controllo razionale (da sempre privilegiato in Occidente), e indagato più che altro come esperienza religiosa. Ma non è solo questa». Fachinelli ricorda per esempio quanto gli ha confidato Francesco Novara, psicologo alla Olivetti: anche li, fra i computer, i momenti- di innovazione-invenzione i emergono in stati alogici e : atemporali: «Un territorio nuovo, da rivalutare, che si apre allo studio della psiche». Le parole di Fachinelli sembrano quasi una sigla per le 1 attuali sofferenze dei pazien| ti. Uscendo dagli schemi di j una ragione immediatamente : utilitaria, contrastando i miti | e le rigidezze dell'economia ! sociale, si può affermare una ! libera e accettata economia , delle emozioni. i Claudio Altarocca

Luoghi citati: Italia, Milano, Roma