Tra Vaticano e Israele un senza amicizia

Tra Vaticano e Israele un senza amicizia Un saggio storico del diplomatico Minerbi, «fervente sionista» Tra Vaticano e Israele un senza amicizia NELLA premessa al libro II Vaticano, la Terra Santa e il sionismo, Sergio I. Minerbi si autodefinisce un 'fervente sionista». Un modo schietto di declinare le proprie generalità ideologiche da parte di uno studioso che, nato sessant'anni fa in Italia, emigrò nel '47 in Palestina per farsi successivamente cittadino israeliano e andare ad occupare incarichi di responsabilità nella diplomazia (è stato ambasciatore ad Abidjan e a Bruxelles) e nell'università del suo nuovo Paese. Un modo onesto, insomma, di avvertire il lettore che chi scrive è persona che nella vita ha fatto scelte che potrebbero condizionare .i giudizi sulla materia trattata. Ma, sempre nella premessa, Minerbi racconta anche d'essere stato ospitato per sette mesi, durante l'occupazione nazista di Roma tra il '43 e il '44, dall'Istituto cattolico San Leone Magno dove, dice, «ebbi salva la vita». Un dettaglio certo non irrilevante nella biografia di chi si accinga a raccontare quale fu l'atteggiamento della Santa Sede rispetto al sionismo e alla sistemazione politico-territoriale della Terra Santa nei primi anni del Novecento, quelli della dissoluzione dell'impero ottomano. Non irrilevante perché interviene — a favore della Chiesa — a compensare e ad annullare i possibili condizionamenti filosionistici di cui s'è detto. Risultato di questo intrecciarsi, nonché reciproco annullarsi, dei condizionamenti mentali è un libro documentatìssimò, intelligente, prezioso, che aiuta il lettore a capire qua] è la vera genesi del conflitto tra Vaticano e Israele. La trattazione si ferma ai primi Anni Venti, all'incirca al 1922, anno in cui la Società delle Nazioni affidò alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina; molto tempo prima cioè della nascita dello Stato d'Israele. Ed è probabile, annuncia nella prefazione Renzo De Felice, che seguirà un secondo libro sul periodo successivo. Ma le premesse per capire ciò che è accaduto in seguito ci sono tutte. Com'è noto, già da quasi un millennio la Chiesa teneva d'occhio quelle terre e da quattro secoli aveva affidato alla Francia il compito di tutelare in Palestina i propri interessi. L'attenzione del Vaticano era andata poi aumentando nell'Ottocento in seguito alla crescente attività russa a favore dei greco-ortodossi che nel campo cristiano erano maggioranza rispetto ai cattolici romani. Oltre a Francia e Russia, anche Austria, Spagna, Italia e Germania, con il pretesto di aiutare la comunità cattolica in Palestina e tutelare i luoghi santi, ponevano le basi per un intervento in quelle terre al momento dell'inevitabile fine della dominazione ottomana. il Vaticano diffidava dunque di quelle forme d'aiuto assai pelose da parte dei paesi cattolici e, dal momento che i suoi già difficili rapporti con la Francia s'erano per aggiunta interrotti, accolse quasi con sollievo il 9 dicembre del 1917 la notizia che fosse un inglese, il generale Allenby, a «liberare» Gerusalemme. Tanto più che Allenby, a nome del governo britannico, come suo primo gesto dopo l'ingresso in Gerusalemme, emise un proclama in cui garantiva la tutela di tutti i luoghi santi; proclama per il quale fu pubblicamente ringraziato dal cardinal Gasparrì, segretario di Stato della Santa Sede. Il pontefice, Benedetto XV, sperava che la presenza inglese fosse provvisoria e ne gli anni immediatamente successivi alla fine della Grande Guerra il Vaticano operò perché fosse il Belgio, paese cattolico ma senza interessi territoriali nella regione, ad avere il mandato sulla Palestina. Ma quando il papa capì che la Gran Bretagna non avrebbe rinunciato al mandato e seppe che primo commissario inglese in Palestina sarebbe stato un israelita in odore di sionismo, Herbert Samuel, fece il possibile per contrastare quella scelta. Perché? Qui ci aiuta a comprendere quel che accadde la seconda parte del libro di Minerbi, quella dedicata alla genesi dei pessimi rapporti tra Santa Sede e sionismo, dov'è spiegato come ai problemi intercristiani dell'Ottocento si sia sovrapposta, in particolar modo dopo la dichiarazione Balfour che prometteva agli ebrei un focolare nazionale in Palestina, il più grave problema (almeno sotto il profilo teologico) di consentire la ricostituzione del regno d'Israele in Terra Santa. Il Vaticano da favorevole a che ebrei perseguitati e scampati ai pogrom trovassero rifugio in Palestina, al momento in cui realizzò che questa era la premessa per l'inveràmento del sogno sionista, cioè per la costituzione di uno Stato israelitico, si fece ostile alla soluzione inglese dietro la quale intravedeva l'attuazione di quel progetto. E in quell'ostilità nacque un atteggiamento di non amicizia nei confronti dello Stato d'Israele che in qualche misura dura ancora oggi. Paolo Mieli Sergio I. Minerbi, «Il Vaticano, la Terra Santa e il sionismo», Bompiani, 340 pagine, 28.000 lire. Paolo VI in Terrasanla nel '64