Irangate senza fine
Irangate senza fine Irangate senza fine ALDO RIZZO Si parla tanto male della giustizia italiana (delle sue lungaggini e della sua ambiguità, anche politica); ma quella americana non è da meno. Dopo due anni e mezzo, il mistero dell'Irangate non appare ancora risolto, anzi promette di riaprirsi anche su versanti sui quali sembrava chiuso. Il processo al colonnello Oliver North si è concluso, stando al verdetto della giuria popolare, con una mezza condanna che è anche una mezza assoluzione. Fondamentalmente, la giuria ha ritenuto che il colonnello avesse agito sulla base di ordini. Ordini di chi? Del suo superiore diretto, l'ammiraglio Poindexter, o addirittura dei vertici della Casa Bianca? Così, in attesa del processo a Poindexter, che era già previsto, si annuncia una nuova inchiesta del Congresso, per accertare le responsabilità dell'ex presidente Reagan e dell'attuale presidente (all'epoca vicepresidente) Bush. Insomma, non è detto, ma c'è il rischio che si ritorni punto e daccapo. Nel novembre del 1986, quando fu scoperto, l'Irangare apparve subito un brutto pasticcio, diffìcile da giudicare. Da una parte, era un caso, per quanto moralmente discutibile, di Realpolitik. Reagan aveva intravisto la possibilità di riallacciare un dialogo, dopo tante tensioni, con gli ayatollah di Teheran, sperando nel contempo di salvare la vita di alcuni ostaggi americani. Fu beffato dagli stessi iraniani. Per questo era passato sopra l'impegno, solennemente proclamato, di non aprire mai trattative con i terroristi e con i loro spomors. Ma poi c'era stato di peggio: devolvendo i proventi della vendita di armi all'Iran in fa- vore dei guerriglieri ribelli, o contras, del Nicaragua, si era eluso uno specifico divieto del Congresso; e qui non si trattava più di un errore politico, ma di una responsabilità costituzionale e penale. Sostanzialmente, il caso fu chiuso per il prevalere — quesra almeno fu l'impressione — della considerazione politica su tutte le altre. Quali che fossero le sue responsabilità particolari, in tutti i passaggi dello scandalo, Reagan aveva agito in buona fede. Dodici anni dopo il Watergate (la decapirazione di Nixon e la gravissima crisi che ne era seguita su più piani), sembrò eccessivo «scoperchiare» un'altra volta la Casa Bianca, e ai danni poi di un vecchio e glorioso Presidenre. Ora, a quanto pare, ci risiamo: nel tentativo di coinvolgere, oltre a Reagan, Bush. Certo, non si poteva chiedere al colonnello North di essere lui il capro espiatorio dell'intera vicenda, magari andando in prigione per il resto della sua vita. Ma a questo si poteva ovviare con un provvedimento di grazia. Reagan, ormai al sicuro, non lo ha concesso (pur avendo definito a suo tempo North «un eroe americano»). La grazia sarebbe stata discutibile, ma omogenea e coerente col giudizio complessivamente politico che si era deciso di dare. Ora il garantismo giuridico riapre, o minaccia di riaprire, anche il caso politico. A rigore, bisognava essere inflessibili subito, o metterci una pietra sopra. Il miscuglio, adesso, di procedimenti penali e di resipiscenze della giustizia parlamentare può tornare a paralizzare l'America, proprio nel momento in cui tutti le chiedono di riprendere slancio e iniziativa. Ma speriamo di no.
Persone citate: Bush, Nixon, Oliver North, Poindexter, Reagan
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