Isaiah Berlin: quel giorno che incontrai la segretaria di Lenin di Sergio Romano

Isaiah Berlin: quel giorno che incontrai la segretaria di Lenin Il pensiero e le memorie dello scrittore tra ebraismo russo e liberalismo occidentale Isaiah Berlin: quel giorno che incontrai la segretaria di Lenin NELL'ESTATE del 1945 un giovane studioso inglese di origine lettone, Isaiah Berlin, fu destinato all'ambasciata di Gran Bretagna a Mosca con l'incarico di seguire e tradurre la stampa sovietica. Era nato a Riga nel 1909, ma era vissuto a Retrogrado Ano all'età di 10 anni e aveva visto, sia pure con occhi di bambino, la rivoluzione d'Ottobre, 11 colpo di Stato leninista del gennaio 1918, la pace di Brest, l'inizio della guerra civile. Rientrato in Lettonia, da pochi mesi indipendente, ne era partito qualche tempo dopo per completare i suoi studi in Inghilterra. Come altri ebrei (Berenson, Chaplin, Weizmann, Namier) proveniente da quell'enorme ghetto geografico, il -recinto», che gli zar avevano costituito agli inizi dell'800 nelle regioni occidentali dell'impero, Berlin era fortemente attratto dal clima Intellettuale e dai costumi civili delle democrazie anglosassoni. In Inghilterra fece studi di storia e di filosofia, con una particolare vocazione per la storia delle idee e dei movimenti intellettuali europei nel corso dell'800. A Pietrogrado era stato testimone d'una rivoluzione socialista che si proclamava marxista e «scientifica»; a Oxford, dove arrivò giovanissimo nel 1932 come fellow di Ali Souls, uno dei maggiori collegi dell'università, decise di risalire alle origini di quell'avvenimento con un saggio sulla vita e l'ambiente intellettuale di Marx. E' vero che ha deciso di occuparsi di Marx? — gli chiese un giorno, guardandolo severamente negli occhi, Lewis Namier. ebreo di origine polacca, amico di Weizmann, storico geniale, polemista instancabile e scontroso protagonista della vita accademica inglese fra le due guerre. Berlin cercò di spiegare, ma Namier non glielo permise. «Marx! Marx! — gridò — un tipico semiciarlatano ebreo che aveva messo le mani su una buona idea, un'ottima idea, e poi la rovinò solo per fare un dispetto ai gentili». Il libro su Marx usci nel 1939, alla vigilia della guerra, e sei anni dopo, come sappiamo, Berlin era addetto stampa dell'ambasciata inglese a Mosca. La conoscenza della lingua e una certa atavica dimestichezza con l'intelligencija russa gli permisero di superare rapidamente gli ostacoli, tangibili e intangibili, che intralciano !e peregrinazioni intellettuali di uno straniero in Unione Sovietica. Si trovò così ben presto al centro di una bizzarra rete di rapporti umani e intellettuali. Per i suoi interlocutori egli era al tempo stesso un «revenant- e un -ospite dal futuro», secondo il titolo di una poesia che Anna Achmatova gli dedico dopo averlo incontrato. Apparteneva al passato perche- aveva vissuto nel loro Paese quando Leningrado si chiamava ancora Pietroburgo o Pietrogrado; e apparteneva al futuro perché portava con sé a Mosca, nella sua memoria e nella sua conversazione, le notizie e i frutti proibiti di un mondo — quello della cultura occidentale — da cui l'intelligencija sovietica era dolorosamente separata. Berlin venne cosi investito, suo malgrado, di un potere straordinario. I suoi Interlocutori gli chiedevano ansiosamente informazioni su autori amati e non più tradotti, o su giovani scrittori di cui avevano notizie vaghe e casuali. Per essi egli era una sorta di ambasciatore, pedagogo e confessore. Ambasciatore perché rappresentava ai loro occhi tutta la cultura occidentale. Pedagogo perché gli chiedevano di aggiornare e verificare lo stato delle loro conoscenze. Confessore, per quel rapporto di complicità emotiva che i russi sanno creare nelle relazioni personali non appena abbassano la soglia della paura e della diffidenza. Un poeta, Scelvinskij, gli chiese ansiosamente se era d'accordo con lui nel ritenere che i cinque maggiori scrittori Inglesi fossero Shakespeare, Byron, Dickens, Wilde e Shaw, «mettendo magari tra le riserve Milton e Bums». Un'insegnante ritornata a Mosca da un campo di lavoro e incontrata nella casa di Pasternak — «una donna dal viso dolce e innocente con un'espressione incredibile che forse è più facile trovare in Russia che in Occidente- — voleva sapere «se Aldous Huxley avesse scritto altro dopo Punto contro punto e se Virgin^ Woolf scriveva ancora. Della Woolf non aveva mai \isto un libro, ma da un articolo pubblicato in un vecchio giornale francese che per vie misteriose era arrivato nel campo di lavoro aveva tratto l'impressione che fosse un'autrice di suo gusto». Ma i rapporti più profondi e duraturi sono quelli che egli stabilì con Pasternak e Anna Achmatova. Il primo lo ricevette nella sua dacia di Peredelkino e nella casa di Mosca, gli parlò con straordinaria franchezza dell'incredibile conversazione telefonica che aveva avuto con Stalin al momento dell'arresto di Mandel'stam, gli rivelò che si considerava un esule in patria e gli fece leggere in occasione di un secondo viaggio, qualche anno dopo, il manoscritto del Dottor Zivago. Anna Achmatova lo ricevette a Leningrado nel piccolo appartamento che le era stato concesso a palazzo Sheremetev (al muro, un suo ritratto, disegnato da Modigliani) e lo tenne avvinto alle sue parole sino all'alba leggendogli i propri versi e rievocando volti del passato: da quello del poeta Gumiliov, suo primo marito, fucilato per un preteso complotto monarchico, a quello di Mandel'stam («un poeta che ho amato e che mi ha amato»), morto in un campo di concentramento alla fine degli Anni 30. Non tutti erano cosi coraggiosamente liberi di esprimere la loro prepotente individualità, non tutti erano egualmente ansiosi di dissetarsi alle fonti della cultura occidentale e non tutti riconoscevano il primato politico e culturale dell'Occidente. Quando si parlò di «libera discussione - nel corso di una serata all'ambasciata di Gran Bretagna, una bella signora che era stata segretaria di Lenin ed era sposata con uno scrittore famoso, intervenne duramente. -Noi siamo una società governata scientificamente, disse, e se non c'è posto per il libero pensiero in fisica — chi mette in dubbio le leggi del moto può essere solo un ignorante* o un pazzo — perché mai dovremmo, noi marxisti, noi che abbiamo scoperto le leggi della storia e della società, permettere il libero pensiero nella sfera sociale?-. Berlin rispose garbatamente che queste erano le tesi dei positivisti francesi dell'Ottocento con cui neppure Marx era d'accordo, ma si astenne dall'insistere non appena si accorse che nel salotto, dove tutti avevano parlato con entusiasmo e calore, era scesa improvvisamente una nube di imbarazzato silenzio. Rispose molti anni dopo con alcuni saggi sul concetto di libertà e con la sua fondamentale distinzione tra «libertà positiva- e • libertà negativa-. Non basta, sostenne, essere liberi di realizzare determinati obiettivi nell'ambito di una strategia «razionale», secondo l'interpretazione che della libertà dettero ad esempio i giacobini francesi. «La misura della mia libertà politica o sociale — Berlin ha scritto recentemente — è data dall'assenza di ostacoli non solamente alle mie scelte attuali, ma anche a quelle potenziali, al mio agire in un modo o nell'altro nel caso che io scelga così». E qual- che anno prima, in un saggio intitolato «Le idee politiche del XX Secolo», egli aveva osservato che i fautori della -verità scientifica» si erano di fatto alleati, in politica, con coloro che vorrebbero privare gli uomini di qualsiasi libertà di scelta. n nichilista Bazarov, eroe di un famoso romanzo di Turgenev, sosteneva che la vivisezione delle rane è più importante della poesia di Pushkin. n Grande Inquisitore di Dostoevskij sosteneva che «nulla gli uomini temono più della libertà di scelta (...) e che la Chiesa, togliendo la responsabilità dalle loro spalle, ne fa degli schiavi consenzienti, grati e felici». Berlin pensava certamente all'Unione Sovietica e forse alla sua conversazione moscovita con l'ex segretaria di Lenin quando scrisse che il Grande Inquisitore e Bazarov avevano «stretto un patto» ed erano «spesso indistinguibili». Gli incontri con l'intelligencija russa a Mosca nel 1945 sono descritti in una raccolta di saggi e ricordi pubblicata presso Adelphi sotto il titolo Impressioni personali (pp. 265, lire 24.000). Le riflessioni sul tema della libertà sono desunte da una raccolta di scritti filosofici apparsa presso Feltrinelli sotto il titolo Quattro saggi sulla libertà (pp. 248, lire 35.000). Il primo contiene altresì un bellissimo ritratto di Chaim Weizmann, leader del movimento sionista fra le due guerre e presidente dello Stato di Israele, un acuto profilo di Churchill e pagine molto interessanti sullo storico Lewis Namier, sul filosofo J.L. Austin e su Aldous Huxley. Il secondo contiene tra l'altro un'introduzione in cui egli risponde alle polemiche suscitate dal suo saggio sulla distinzione fra «libertà positiva» e «libertà negativa». Apparsi contemporaneamente, questi due libri rivelano nella sua duplice dimensione di filosofo e di storico delle idee uno studioso che ebbe a Torino, nel 1988, il Premio Giovanni Agnelli, ma incontri occasionali con il lettore italiano. Il suo nome non è presente nel dizionario Bompiani e di lui erano apparsi in italiano, sinora, soltanto un volume di storia della filosofia (Vico e Herder. Due studi sulla storia delle idee, Armando, 1978) e una raccolta di studi sulla letteratura russa (Il riccio e la volpe, Adelphi 1986). n lettore scoprirà così, ai confini tra ebraismo russo e liberalismo occidentale, una delle più seducenti fra le personalità intellettuali del secolo. Sergio Romano Isaiah Berlin fotografato nel suo studio di Oxford Boris Pasternak a Peredelkino dove fece leggere a Berlin il manoscritto del «Dottor Zivago»