I maestri pittori dell'Italia bella

I maestri pittori dell'Italia bella VENEZIA: IN VETRINA A PALAZZO GRASSI L'ARTE ITALIANA DAL 1900 AL 1945 I maestri pittori dell'Italia bella Cinquanta «firme» impersonano un sogno di bellezza in mezzo alle tempeste di mezzo secolo ■ Dal Futurismo alla Metafisica, al momento di svolta del 1920 Due mattatori: De Chirico e Morandi - Le cupezze del Novecento fascista e lo stile dell'astrazione - Guttuso e Vedova: un'appendice di rivolta giovanile Raffinate sezioni dedicate alla fotografia, all'architettura e all'urbanistica - Una preziosa antologia del cinema italiano dalle origini al neorealismo VENEZIA — A Palazzo Grassi, fino al 5 novembre, 300 Preseme di arte italiana 19001945: i tre Burri 1948-49 e i due Concetti spaziali di Fontana 1949, splendidi e appartati in un box finale, sono fotografati in catalogo ma non schedati. Presenze di 47 pittori e scultori, se ho contato giusto, ritenuti esemplari dagli ordinatori Pontus Hulten e Germano Celant di ogni forma e tendenza espressiva del «vedere» italiano nella prima metà del secolo, a confronto e a gara con la contemporaneità internazionale; parecchi, fra essi, riconosciuti, rivendicati, studiati negli ultimi decenni come tali. Con altri, assenti. O presenti in modo irrilevante: Gino Rossi. Afro. Manzù. In compenso — compenso sontuoso, probabilmente irripetibile, certo più che sufficiente a soddisfare, ma anche ad affinare culturalmente, le folle ormai tradizionali di Palazzo Grassi — Medardo Rosso, Boccioni e Balla e Severini, Carrà e Sironi, De Chirico e Savinio, Arturo Martini e Modigliani, Morandi e De Pisis e Casorati sono presenti, di tempo in tempo, di tappa in tappa, con sequenze monografiche di assoluto e compiuto livello. Sono opere affluite, come già per Futurismo e Futurismi", da ogni angolo del mondo: dei due Morandi dell'Ermitage, solo l'altissima Natura morìa metafìsica del 1918 era già approdata a Bologna nel 1966. Pr-r gli Armi 30. della stessa ricchezza e significatività ai presenze godono Prampolini e Magnelli, Licini e Melotti, Fontana. Mafai e Antoinette Raphael — sia pure solo come scultrice —, gli astrattisti comasco-milanesi come gruppo; con insoddisfacente sottodimensionamento, pur nell'ottima scelta, Campigli — troppo isolato nell'assenza degli «italiani a Parigi» con lui più consonanti, Tozzi e Paresce —, Scipione. Fausto Pirandello. Un nobile, lussuoso, scarsamente problematico fluire di capolavori della forma pittorica e scultorea, un trionfo dell'-ordine» figurato o astratto che finisce per placare in sé anche i furori del Futurismo originario: non a caso emergono come olimpici numi De Chirico e Morandi, contrappesati solo dalla gioia totale di vivere pittura e letteratura di De Pisis, dal pondus platonico di Casorati, dall'invenzione perpetua e vitale di Arturo Martini, dal cupo espressionismo di Sironi. In questo flusso la rivolta esistenziale dei giovani, preconizzata da Scipione, si riduce ai due grandi quadri-manifesto di Guttuso. Fuga dell'Etna e Crocifissione, agli esordii tumultuosi, flagellanti, di Vedova e alle angosciate, stupende, piccole ceramiche di Leoncino. Insomma, un calmo fiume di bellezza formale, che in quanto tale può forse perfino giustificare l'entusiastica domanda di Hulten — poggiante però più sul post-1945 che sul precedente — se il XX Secolo sarà culturalmente italiano; in esso vi è scarsa o nulla traccia di quel «Mare in tempesta» con cui Norberto Bobbio caratterizza, con ben fondate ragioni altrettanto storiche quanto culturali, la nostra prima metà secolo. E' forse un gioco troppo elementare contrapporre alla qualità della forma la vitalità dei contrasti? Certo è che in quel calmo fiume veri contrasti e svolte non possono darsi in sostanziale assenza di Ca' Pesaro, della Secessione romana, del realismo magico romano, del primo gruppo milanese di Novecento, dei Sei di Torino, dei tonalisti romani, di «Corrente». Gli ordinatori possono certo contrapporre a questo richiamo alla travagliata vitalità di un tessuto culturale invincibilmente suddiviso in «province» (le egemonie di Parigi o di New York hanno altre storie e culture alle spalle) gli appaganti vertici di qualità che collegano i campioni da loro scelti, in una chiave che per Hulten definirei neoidealistica e per Celant di ben giustificato amore per il gran filo rosso delle avanguardie. Ma per rimanere sul loro terreno, a parità di «valori», un critico non può esimersi dal pur pericoloso gioco dell'indice di assenti (non cito, per provinciale pudore, i torinesi): Viani, Melli, Cavaglieli, Sameghini, Garbali, Guidi, Funi, Donghi, Cagnaccio di San Pietro, Carena, Spadini, Tosi. Ferrazzi. Fazzini. Capogrossi, Ziveri, Mirko. Birolli. Sassu, Badorii, gli esordi di Cassinari, MorlottL Cherchi. Cioè la maggior parte dell'arte di espressione e di contestazione e di realismo urbano della prima metà del secolo. Coerentemente, Jean Clair, in catalogo, per esaltare l'unicità del Sironi delle Periferie urbane, quale compare in mostra, identifica la cultura visiva dell'Italia fascista col mito e la tradizione d'una civiltà agricola, di un popolo contadino. Vi è un caso tipico nella mostra, nella sua singolare atmosfera in cui qualità e pregnanza di scelte e di presenze — anche se non equilibrate rispetto ad altre — fanno trasparire in filigrana intere situazioni non dispiegate a causa delle assenze. Si tratta della monumentale Ines di Ardengo Soffici, dipinta nel 1920 e pubblicata nel 1921 su Valori Plastici, in cui l'ex futurista — assente come tale nella prima parte della mostra — propone con grande, densa sintesi neorinascimentale ma anche neomacchiaiola la sua idea di ordine e di tradizione italico-toscana da Masaccio a Fattori. L'opera, fondamentale, è riemersa solo due mesi fa nell'edizione milanese della mostra sul «Realismo magico» ed è subito rimbalzata nelle sale veneziane. E' esposta in contiguità, e in mezzo fra il Carrà «giottesco», il Severini della svolta fra la stupenda Maternità del 1916 e i Pierrot, il Martini del momento di purità metafisica di «Valori Plastici», arcaica mediterranea quanto la poesia di Valéry ma anche ncoquattrocentesca alla Laurana. e Casorati. Fronteggia questo complesso la felicità pittorica di De Pisis romano nei primi Anni 20. E' uno dei luoghi magici della mostra, dove, anche grazie alla presenza di quell'unico Soffici, l'eccellenza di «presenze» e di scelte coincide con l'evidenza storica di un punto nodale, aprendo alla grande il discorso da «Novecento» a «Strapaese»; un discorso che poi si restringe, si incupisce, quasi si soffoca nell'unica sala dei Sironi «titanici», dei Nuotatori di Carrà, dei due bei Campigli. Altri luoghi magici, più agevoli in quanto semplicemente affidati all'eccellenza del singolo artista in piena evidenza grazie alle scelte, offrono al visitatore irripetibili esperienze: la sala di Medardo Rosso, con il confronto altamente didascalico delle due versioni in gesso e in cera del Bambino al sole e l'eccezionale Femme à la voilette della collezione Estorick; le sale delle sculture e pitture di Modigliani e delle pitture di Savinio; le pausate sequenze di capolavori di Morandi. I due saloni centrali al primo e al secondo piano mi sembrano veramente simbolizzare da un lato l'eccezionalità e dall'altro i limiti della mostra. In quello al primo piano sono messi a confronto: i due estremi, altissimi, cromaticamente e psicologicamente drammatici capolavori del Boccioni «cézanniano» — che affronta con angoscia la crisi dell'avanguardia futurista —. Le due amiche e il Ritratto di Busoni; e una sequenza mai vista e probabilmente non più visibile, almeno in Italia, di De Chirico 1911-1916, dalle Piazze d'Italia alla metafisica ferrarese. Uno spettacolo eccezionale, ma un confronto in cui cultura e storia sono presenti solo come materiale coincidenza di tempo. Nel salone al secondo piano, al contrario, storia e cultura vivono e pulsano nell'aura rarefatta e sublime di una forma pura, fra conscio e inconscio, che avrà grandi conseguenze future non solo italiane: fra scultura e pittura, i capolavori Anni 30 figurati e astratti, dipinti e modellati, di Fontana, Melotti, Licini. Al di là della mostra, tutta la ricchezza di cultura e di storia è affidata ai saggi e agli apparati del ponderoso catalogo Bompiani. In mostra, scelte distillate e raffinatissime propongono lo stesso discorso nelle piccole sezioni della fotografia, curata da Carlo Bertelli, che svaria dalle foto di monumenti delle campagne di Alinari ai rayogrammi di Veronesi al «Covo» milanese del primo Fascismo fotografato da Mario Pagano; dell'urbanistica curata da Francesco Dal Co, del disegno architettonico curato da Vittorio Gregotti. In questo senso, ancora più intelligente e affascinante è lo spettacolo filmico e con proiezioni fisse interrelate Dipingere con la luce, proposto da Giampiero Brunetta e Roberto Gavioli: lettura antologica del cinema italiano dalle origini al neorealismo, messo a confronto con la cultura visiva e soprattutto pittorica del XIX e XX Secolo. Marco Rosei Giorgio Morandi: «Natura morta» (1918, olio su tela, Leningrado, Musco dell'Ermitage)