Regio, questa «Manon» dall'incanto dimezzato di Giorgio Pestelli

Regio, questa «Manon» dall'incanto dimezzato Finalmente in scena l'opera di Massenet diretta da Giovaninetti Regio, questa «Manon» dall'incanto dimezzato Il successo è arrìso nella parte finale - Brava Fiamma Izzo, bello il «Sogno» di Rosenshein TORINO—Con un'anticamera un po' troppo lunga anche per una giovinetta (e non poco birba in verità) come Manon, al Teatro Regio è finalmente andata in scena la cara opera di Massenet, direttore Reynald Giovaninetti, regista Alberto Fassini, allestimento dell'Opera di Roma con le scene di Pierluigi Samaritani; speriamo che questa tormentata stagione possa ora procedere senza intoppi, in uno spirito di collaborazione che è l'unica ragionevole premessa di stabilità. Tanti rinvìi non possono non avere influito sulla tensione e sullo smalto che di solito accompagnano una «prima»; qualcosa di rigido, come una paura di passi falsi, ha accompagnato la prima parte dell'opera, quella più tipica sul piano musicale, in cui trionfa quel tenero e voluttuoso lyrisme che i francesi, primo Gounod, avevano introdotto nel solenne teatro d'opera. Siamo portati ad incolpare le circostanze, sopra tutto perché il direttore è quello stesso Giovaninetti che al Teatro Nuovo, nel 1972, diresse una Manon che tutti ricordiamo ancora come un gioiello di spontaneità e di charme (protagonisti la PiloueKraus). Di charme l'altra sera se ne sentiva circolare poco; niente indugi, pochi rubati, poco trionfo di melodia regina; è vero che l'orchestra del Regio è una delle meno allenate nel repertorio medio-leggero, spigliato e trasparente (riesce sempre meglio in partiture moderne dall'impatto violento, tipo Wozzeck), ma proprio dal direttore ci sembra¬ va venire una briglia stretta su voci e strumenti destinata a sciogliersi nelle repliche. Anche le voci d'altra parte non favorivano l'effusione del «lyrisme» nel senso più seducente di sensualità sonora. Fiamma Izzo D'Amico è una Manon dalla voce fresca e brillante, ma non esprime quell'inconsapevole senso di alcova, a metà tra materia e spirito che è tipico della femminilità del personaggio; come ha detto in una intervista, forse è troppo seria per l'animo volubile e salottiero di Manon, e questo si sente malgrado la maestria con cui si fa conoscere in « Je suis encore toute étourdie» e la delicatezza con cui si congeda dalla «petite table»; anche il suo gestire ha più l'ampiezza della eroina romantica che la frivola leggerezza del personaggio di Prevost. Tende anche a drammatizzare le note acute, cosa che in misura anche maggiore fa il suo compagno Neil Rosenshein nella parte del cavaliere des Grieux, vibrando all'italiana e sforzando talvolta l'emissione: ha cantato molto bene il «sogno», con grande purezza di linea melodica, ma anche qui in fondo senza fare sentire un vero «pianissimo». La melodia di Massenet, la poesia delle sue «petites' phrases» è tutta modellata sulla lingua francese (basti pensare al delizioso tubare dei monosillabi «tous les deux», nel primo duetto degli amanti), ed è quindi meritoria la scelta fatta dal Regio dell'edizione in lingua originale; ma non un solo cantante della numerosa compagnia era francese, sicché malgrado l'impegno generale la naturalezza dei toni parlati era per forza di cose limitata. Des Grieux padre è un derivato di papà Germont, ancora più impastato di conformismo di .quanto già il modello non fosse; lo sciroppo paternalistico della sua aria, «Epouse quelque brave Alle» non richiede però il cipiglio minaccioso che ci mette dentro il pur bravo basso Carlo De Bortoli. Nelson Portella, Mario Bolognesi, Alfredo Giacomotti, Guido Pasella, il terzetto femminile di Marilena Laurenza, Rita Sosovsky e Antonella Trevisan danno vita e colore alle principali figure che ruotano nell'affollato contomo. Perché alla fine del terzo atto gli applausi del pubblico, fino a quel punto molto misurati, sono scrosciati impetuosi? perché Italiani siamo: e con la mirabile scena di seduzione, con Manon che si porta via des Grieux dal seminario di St. Sulpice, e con i due che si avventano uno nelle braccia dell'altro al grido a tutti comprensibile di «je t'aime!», i cromosomi del melodramma nazionale fanno sentire i loro diritti: non la sensualità sottopelle delle «petites phrases», non il «lyrisme» ci vuole da nói, ma la passione inequivoca e fiammeggiante. Per cui anche l'esecuzione ha ingranato di più proprio là dove Manon si allontana di n'ù da se stessa per avvicinarsi all'opera italiana: St. Sulpice appunto, poi il quadro della sala da gioco, con la smaccata imitazione della Traviala, poi la tragica conclusione: tutti erano più convinti e sicuri in questa seconda sezione dello spettacolo. Chiara e scorrevole la regia di Alberto Fassini, fastose le scene di Samaritani, bellissima quella di St. Sulpice e molto felice l'idea di ridurre la scena della stanza di Manon e des Grieux a Parigi: anche lei piccola, come «la table» e i casi che vi si agitano. D coro, istruito da Fulvio Fogliazza, si è portato bene, cogliendo anche l'umorismo del coro dei fedeli entusiasti della predica di des Grieux, novello Bossuet; suggerirei solo di dare meno rilievo «concertistico» alle polifonie fuori scena dello stesso quadro. H coreografo Jacques Fabre e i ballerini Gabriella Pancetti e Luca Tozzi sono responsabili della grazia settecentesca della festa popolare al Cours-la-Reine; pagina tuttavia che accanto a molte altre di insieme ha bisogno di robusti interventi di cesoie; l'edizione era invece «integrale» e con questa idea ho cercato, senza successo di edificarmi rincasando all'una di notte. Giorgio Pestelli

Luoghi citati: Parigi, Roma, Torino