II bolscevico dell'Annunziata di Sergio Romano

II bolscevico dell'Annunziata ANTEPRIMA: IL LIBRO DI SERGIO ROMANO SU GIOLITTI II bolscevico dell'Annunziata Il soprannome dispregiativo gli fu dato nel 1920 dalla borghesia liberale - Non piaceva il suo atteggiamento moderato verso l'occupazione di 600 fabbriche dell'Italia del Nord - In realtà lo statista voleva che lo sciopero fallisse spontaneamente - L'accordo di Torino tra Confindustria e sindacati accettava un certo controllo operaio sulle fabbriche - L'incontro con Giovanni Agnelli Sta per uscire da Bompiani Giolitti lo stile del potere, di Sergio Romano, storico, già direttore generale delle relazioni culturali con l'estero, ambasciatore presso la Nato a Bruxelles e poi ambasciatore d'Italia a Mosca. Ne diamo in anteprima qualche pagina sull'occupazione delle fabbriche nel 1920. Due mesi dopo, allafìne d'agosto, il fuoco della protesta sociale si riaccese nell'Italia settentrionale. Dopo un lungo negoziato sui salari della metallurgia, gli industriali minacciarono la serrata e gli operai reagirono occupando le fabbriche. Nel giro di pochi giorni seicento industrie furono occupate da mezzo milione di operai. Scavalcati dagli avvenimenti, i sindacati e il partito socialista dovettero dare alla situazione un significato e uno sbocco politici; dovettero decidere, in altre parole, se l'occupazione delle fabbriche dovesse considerarsi la fase iniziale di un movimento rivoluzionario di tipo sovietico, destinato a investire tutte le strutture dello Stato italiano, come sostenevano per l'appunto i massimalisti e i giovani socialisti torinesi di Ordine Nuovo, o dovesse porsi obiettivi economici più limitati. Al consiglio nazionale della Confederazione generale del lavoro che si riunì a Milano dal 10 all'll settembre con la partecipazione della direzione e del gruppo parlamentare del partito socialista, prevalse la tesi •moderata^ di Ludovico D'Aragona che escludeva sbocchi immediatamente rivoluzionari. Ma nel suo ordine del giorno, che fu approvato con piccola maggioranza e forte numero di astensioni, poteva leggersi che 'l'estensione e l'importanza presa dal movimento non comporta e non ammette soluzioni sul semplice terreno della competizione (...), e che il momento storico non consente più gli attuali rapporti tra padronato e lavoratori: L'obiettivo della lotta doveva essere, secondo D'Aragona, il principio del controllo sindacale delle aziende come 'varco- verso 'quelle maggiori conquiste che devono immancabilmente portare alla gestione collettiva ed alla socializzazione, per risolvere così, in modo organico, il problema della produzione^. Non era la Rivoluzione d'Ottobre, ma era pur sempre una radicale trasformazione del sistema economico italiano. Si è detto che Giolitti tenne verso l'occupazione delle fabbriche lo stesso atteggiamento che egli aveva tenuto verso lo sciopero generale di Milano nel 1904. Lo sostenne egli stesso nelle Memorie: occorretia che anche quell'esperimento. come quello del 1904, -si compiesse sino a un certo punto, perché gli operai avessero modo di convincersi della inattuabilità dei loro propositi, ed ai loro caporioni fosse tolto il modo di rovesciare sugli altri la responsabilità, del fallimento-. Aggiunse che non avrebbe potuto, comunque, fare altrimenti. Come disse al Senato il 26 settembre, avrebbe potuto impedire l'occupazione di sei- cento fabbriche o costringere gli operai ad andarsene soltanto mettendo in campo tutta la forza di cui poteva disporre per l'intero Paese. "Ed allora chi sorvegliava i 500.000 operai che restavano fuori delle fabbriche? Chi avrebbe ancora tutelata la pubblica sicurezza nel Paese?-. Nei primi giorni dell'occupazione era a Bardonecchia dove ricevette Agnelli che veniva a chiedergli, se necessario con l'uso della forza, l'evacuazione della Fiat. "Sia-, disse Giolitti, "ma intendiamoci: non permetto che la forza pubblica rimanga nelle strade nella certezza che se te guardie rosse sparano la colpiscano dall'alto senza difesa. Per scacciare gli operai dalle fabbriche occorre l'artiglieria". E poiché Agnelli aveva l'aria d'essere d'accordo, aggiunse immediatamente: "Sono in grado di provvedere subito. A Torino c'è il settimo (se ben ri. cordo) reggimento di artiglieria da montagna: do ordine immediatamente che domani all'alba sia bombardala la Fiat e sia liberata dagli occupanti-. Messo di fronte a tali prospettive Agnelli reagì negativamente. "E allora?- chiese Giolitti. Il secondo argomento — l'inopportunità di una soluzione di forza — è più esatto del primo E' certamente vero che Giolitti non poteva usare la forza senza creare situazioni intollerabili. Ed è vero che il suo merito maggiore, nell'intera vicenda, fu la freddezza di cui seppe dar prova anche nei momenti di maggiore tensio- ne. Forse il suo gesto più abile e coraggioso, nei giorni dell'occupazione, fu il viaggio a Aix-les-Bains per l'appuntamento con Millerand, che egli non volle assolutamente disdire. Quando un ministro minacciò di dimettersi se avesse lasciato l'Italia, gli rispose seccamente: -Domani alla precisa ora fissata parto per Aix. Sarò molto dolente, al mio ritorno, di dover prendere atto delle dimissioni tue e di quelle eventuali dei tuoi colleghi-. Non è del tutto esatto invece affermare che egli abbia trattato i due episodi — lo sciopero politico del 1904 e l'occupazione delle fabbriche — allo stesso modo. Nel 1904 gli operai tornarono nelle fabbriche perché lo sciopero era fallito; nel 1920 le evacuarono dopo aver concluso un accordo che garantiva il loro intervento •al controllo tecnico e finanziario, o all'amministrazione dell'azienda-. L'accordo fu abbozzato il 15 settembre nel corso d'una riunione che Giolitti presiedette all'albergo Bologna di Torino, dove aveva l'abitudine di alloggiare quando scendeva da Cavour. Vi parteciparono, insieme a Frassati. il presidente della Confederazione generale del lavoro e il segretario della Confederazione generale dell'industria. Quell'accordo, firmato a Milano il 1° ottobre dopo l'evacuazione delle fabbriche, divenne nei giorni seguenti un decreto del presidente del Consiglio, che prevedeva l'istituzione d'una -Commissione paritetica, formata da sei membri nominali dalla confederazione generale dell'industria, e sei membri dalla confederazione generale del lavoro (...), la quale formuli proposte che possono servire al Governo per la presentazione di un progetto di legge- sul controllo operaio. Non accadde nulla, come è noto, perché Giolitti si dimise prima che la commissione potesse terminare i suoi lavori. Ma ogni confronto tra lo sciopero del 1904 e gli avvenimenti del 1920 deve tener conto dell'importanza degli impegni che il governo aveva assunto nel secondo caso. Né sarebbe corretto sostenere che quegli impegni furono assunti in stato di necessità per evitare che il Paese scivolasse sulla china della rivoluzione. Quando intervenne al Senato, il 26 settembre, per commentare gli avvenimenti delle settimane precedenti e presentare il decreto che istituiva la commissione paritetica, Giolitti dette dell'accaduto una giustificazione storica. L'occupazione delle fabbriche non era un episodio isolato e incomprensibile. Era il punto d'arrivo d'ima storia che egli aveva più volte raccontato nei suoi discorsi sull'ascesa del quarto stato- e di cui egli stesso aveva scritto un capitolo importante con la politica sociale dei suoi governi agli inizi del secolo. Non era colpa sua se la guerra aveva impresso a quella storia una straordinaria accelerazione creando industrie artefatte, riccliezze scandalose e, dalla parte dei lavoratori, nuove e legittime aspettative. Non era colpa sua se la classe dirigente italiana si era illusa, alla fine della guerra, di tornare indietro di quattro anni, come se nulla fosse accaduto nel frat¬ tempo. Toccava a lui, ancora una'volta, prendere atto del nuovo clima politico e sociale, e agire di. conseguenza. La soluzione raggiunta all'albergo Bologna di Torino gli sembrava, comunque, perfettamente ragionevole. Una volta associati al controllo delle imprese gli operai avrebbero verificato di persona i conti delle aziende e avanzato richieste conformi al loro stato reale. «E l'operaio, il quale sa che se l'industria fallisce (...) rimane senza lavoro, rimane un disoccupato che non può vivere, l'operaio quando conoscerà le vere condizioni è assai probabile sarà molto più remissivo nelle sue domande-. Questo atteggiamento gli tirò addosso una campagna di stampa più aspra di quella che aveva accolto il discorso programmatico di Dronero nell'autunno del 1919. Come era possibile che un uomo scaltro e avvertito quanto Giolitti potesse avallare con tanto fiducioso candore una Soluzione politicamente rischiosa e economicamente dubbia? Come nel 1919 Giolitti divenne, per una larga parte della borghesia liberale, il •bolscevico dell'Annunziata-, dal nome dell'ordine cavalleresco di cui tire Io aveva insignito nel settembre del 1904. Ma il nomignolo sarcastico che gli era stato affibbiato dal Corriere della Sera sottintendeva un giudizio ingiusto. Alle origini del suo atteggiamento sul problema dell'occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920, non vi era lo scaltro opportunismo dell'uomo politico che accetta qualsiasi compromesso e non esita a pregiudicare il futuro pur di conservare il potere. Vi era, in primo luogo, una profonda fiducia nel buon senso popolare: la stessa fiducia che gli aveva dettato le sue decisioni più assennate e coraggiose nei conflitti sociali degli inizi del secolo. E vi era, in secondo luogo, come abbiamo constatato in altre circostanze, una sorta d'impermeabilità a certi aspetti più propriamente finanziari (egli avrebbe detto probabilmente -speculativi-) dell'economia moderna. Paradossalmente egli poteva essere -radìcalenelle sue soluzioni economiche proprio per quel fondo d'-Ancien Regime- che caratterizzava la sua politica economica e sociale. Come tutti i grandi re era naturalmente portato a difendere il popolo contro i baroni dell'industria e a credere che l'economia, prima o dopo, si sarebbe adattata alle esigenze della politica. Sergio Romano Torino, 1920. Assemblea allo stabilimento Fiat del Lingotto durante l'occupazione (Archivio Centro studi Gobetti)