Pittura di frontiera

Pittura di frontiera TORNA LARTE ANTICA DEL PIEMONTE Pittura di frontiera «Non ha il Piemonte un'antica successione di scuola come altri Stati; né perciò ha men diritto di aver luogo nella storia della pittura. Questa bell'arte figlia di una fantasia quieta, tranquilla, contemplatrice delle immagini più gioconde, teme non pur lo strepito, ma il sospetto dell'armi. 11 Piemonte per la sua situazione è paese guerriero; e se ha il merito di avere al resto d'Italia protetto l'ozio necessario per le belle arti, ha lo svantaggio di non averlo mai potuto proteggerlo durevolmente a se stesso». Un tale giudizio, che apre il libro dedicato alla Pittimi in Piemonti: e nelle sue adiacenze di quella Storia Pittorica della Italia con la quale, sullo scorcio del Settecento, l'abate Luigi Lanzi fondava un nuovo modo di studiare e di scrivere sull'arte del passato, ha forse contribuito a occultare per molto tempo nel grigio limbo della periferia la pittura piemontese del Quattro e del Cinquecento, e questo malgrado gli sforzi memorabili che a sua illustrazione e difesa dedicarono, ora è circa mezzo secolo, Vittorio Viale, Anna Maria Brizio, Noemi Gabrielli, e le tante ricerche, le scoperte, le ricostruzioni e i recuperi spesso sorprendenti (un esempio recente è quello del grande ciclo di affreschi del Battistero di Chieri), che da allora si sono susseguiti. Non parliamo del grande Gaudenzio, la cui altezza artistica è ampiamente riconosciuta, ma che, per il Lanzi, apparteneva a quegli «esteri» («Non mi si opponga che i Novaresi, i Vercellesi, e alcuni del Lago Maggiore non sono esteri») che in Piemonte avevano lavorato; ma un Macrino d'Alba (cui il compatriota Roberto Longhi dedicò il suo primo e giovanilissimo scritto, e del quale il Lanzi si sforzava ili leggere l'enigmatica cultura: «bravo pittore, e di gran verità ne' sembianti, studiato e finito in ogni parte; e nel colorire, e nell'ombreggiare, dotto a sufficienza... che assai somiglia nel gusto Bramantino e i milanesi contemporanei...» ma che «...ha pur messo nel paese l'Anfiteatro Flavio onde sospettar che vedesse Roma...»), un Gandolfino di Roreto, un Defendente Ferrari non occupano oggi, almeno nel comune giudizio, posizioni significative nel panorama dell'arte italiana tra Quattro e Cinquecento. Eppure lo meriterebbero, come chiunque potrà constatare visitando la mostra che si è aperta a Torino fino al 27 maggio presso la galleria «Antichi Maestti Pittori», che sotto il titolo Piemontesi e Lombardi tra Quattrocento e Cinquecento presenta, per la regia di Giovanni Romano e con la collaborazione di un gruppo di giovani e agguerriti conoscitori (il catalogo resterà un indispensabile strumento di studio), una ventina di opere. Vanno queste da Spanzotti a Gandolfino, a Macrino a Defendente, a Eusebio Ferrari, a Giovenone a Gaudenzio medesimo (di cui si propone la ricostruzione — la resurrezione quindi — di un importante trittico smembrato e mutilato che nel Seicento si trovava, già scomposto, nel palazzo torinese del Duca di Savoia) e, sul versante lombardo, a uno spettacoloso San Giovanni Evangelista dello Zenale, a un Bergognone e ai prodotti di due artisti singolari, il monumentale «Maestro della Pentecoste Cernuschi» autore a una data assai precoce (c. M85) di una grande e rara tempera su tela ove la Pentecoste è accompagnata da una lunga iscrizione devozionale, e l'accattivante, lieto e garbatamente provinciale «Maestro del Romacolo» attivo in Val Seriana sull'inizio del Cinquecento. Se i Lombardi sono ben rappresentati l'accento, anche numericamente, cade sul Piemonte e sulle sue diramate e complesse culture figurative (l'uso del plurale è dovuto proprio alla varietà delle situazioni), le cui testimonianze esercitano sovente un particolare fascino, un richiamo assai peculiare. Che poi altro non è se non sentore, profumo di frontiera. Un dipinto esemplare in questo senso è esposto alla mostra torinese. E' una gran Tavola di quercia occupata dalle incombenti figure di due santi barbuti, San Paolo l'uno, con un grande spadone affilato e appuntito, Bartolomeo l'altro, o forse Matteo, con un libro e un coltellaccio. Questa irsuta e rusticana progenie è stipata sotto un arcone sorretto da pilastri a candelabri* di ascendenza lombarda e bramantesca (attraverso il quale si vedono i profili dei monti), ed era originariamente inquadrata da una spinosa cornice gotica ora sparita, ma i cui visibili contorni danno un arrière-goùt nordico all'insieme opposto al sapore umanistico delle architetture. L'accento settentrionale viene confermato dai riflessi che illuminano il pomo di cristallo e le perle dell'impugnatura della spada, dal disegno preparatorio tagliente, rapido e sicuro che si legge nelle linee dei volti, nelle mani, nelle pieghe e negli orli delle vesti. Questa tavola faceva parte di un trittico di cui l'altro sportello reca lo stemma, tardivamente aggiunto, dei Reyneri di Lagnasco, da cui il nome di «Maestro dei santi Reyneri» con cui è stato per ora battezzato l'anonimo e solenne pittore. Solenne certo, ma anche arcano, in quanto meglio vorremmo conoscere le vie e i centri in cui furono possibili simili incontri tra culture artistiche come la borgognona o la provenzale e la lombarda. Per arrivare a sciogliere questo nodo occorrerà restituire la fisionomia di certe aree ove si dipanavano le strade che portavano ai valichi e dove i contatti poterono agevolmente aver luogo. La Val di Susa fu oggetto una decina d'anni fa (1977) di una bella mostra, oggi è il caso della Val d'Aosta, di cui un libro importante e adeguatamente illustrato di Elena Rossetti Brezzi (Lapittura in Valle d'Aosta tra la fine del 1300 e il primo quarto del 1500. Firenze 1989) illustra l'intricata situazione, mentre una recentissima identificazione (dovuta a Romano) ha permesso di riconoscere l'autore della splendida Trinità del torinese Museo Civico, autentico apice dei «primitivi alpini», nel tolosano Antonio de Lloyne, autore nel 1460 di una vetrata in Santa Maria del Mar a Barcellona e documentato nel 1462 ad A vigliami (dove si ergeva una delle più ricche e suntuose dimore dei Duchi di Savoia), apportando così nuoviconferme al carattere cosmopolita della cultura artistica piemontese. Ed ecco sprigionarsi più intenso il sentore di frontiera. Si leva dai castelli ducali, comitali, marchionali, da Avigliana a Chambéry, a Saluzzo ad Issogne, dalle città ricche di opere d'arte transalpine, (Chieri, piazza importante negli scambi economici Nord-Sud, contava, insieme a tante opere settentrionali, splendidi dipinti di Van der Weyden, e testimonianze importanti di questa cultura vantava anche Mondovì), dalle chiese monastiche, dalle cappelle gentilizie. Un portato di questa situazione è Defendente Ferrari, maesrro sottile e buon conoscitore di pittura nordica, le cui pitture erano richieste al di qua e al di là delle Alpi, un artista assai più affascinante di molti fiorentini a lui contemporanei il cui nome, per antica consuetudine, suscita invece maggiore interesse e consenso. A che cos'è dunque dovuta la dimenticanza, la sufficienza con cui ancora è guardata — dal gran pubblico, non dai collezionisti — la pittura piemontese degli antichi tempi? Al pteambolo del Lanzi, a un concetto ristretto ed esclusivo di Rinascimento, con canoni e gerarchie prefissate, o ancora alla migrazione e alla dispersione e alla distruzione di tante e tante opere? Quest'ultimo argomento è tutt'altro che inconsistente, ce lo mostra tra l'altro proprio il Lanzi che, cercando con scarso frutto pitture quattrocentesche a Torino, lamenta che «questa città fra tutte le capitali d'Italia, è stata forse la più bramosa di sostituire a' quadri antichi i moderni». E molto di quanto rimaneva ancora in loco al tempo del Lanzi emigrò in seguito, contribuendo all'impoverimento dell'immagine culturale della regione, come illustra la prefazione al catalogo, seguendo l'esodo di tante opere che erano state esposte alla IV Esposizione nazionale di BelliArti a Torino nel 1880. Più che mai si tratta di restituire una situazione, di ricomporre un contesto, di ricostruire quella civiltà dei valichi e delle valli che si compose, più di quanto non si oppose, con quella delle coste e dei porti, ambedue offrendo occasioni, spazi e luoghi privilegiati per lo scambio e l'incrocio di differenti esperienze e culture nell'Europa del Quattrocento. Enrico Castelnuovo Maestro dei santi Reyneri: «San Matteo» (particolare)