Tragico Inquisitore di Sergio Quinzio

Tragico Inquisitore ROZANOV E LMIMA DI DOSTOEVSKIJ Tragico Inquisitore La Leggenda del Grande Inquisitore è — come ha scritto Vittorio Strada — il «culmine del pensiero poetico di Dostoevskij». Inserita ne / fratelli Karamazov, sotto forma di racconto che in una piccola trattoria l'inquieto e inquietante Ivan fa al pio fratello Alesa, la Leggenda è in sé perfettamente autonoma. La sua radicale, tragica ambiguità può facilmente sfuggire al lettore, tanto è grande la forza che promana dalla figura di Gesù, il protagonista muto che, ritornato sulla terra nella Siviglia del XVI Secolo, viene imprigionato e accusato nella notte dal Grande Inquisitore, che gli preannuncia per l'imminente mattino il rogo. Di che cosa è colpevole Cristo per il vecchissimo Inquisitore? Di aver portato agli uomini una salvezza troppo alta, troppo difficile, inaccessibile, impossibile ai più, perché esige la scelta della libertà spirituale anziché soddisfare concretamente i bisogni della loro misera e dolente umanità. Il Grande Inquisitore perciò, nel quale s'incarna anzitutto la Chiesa di Roma e la tradizione cristiana dell'Occidente, ha «emendato» il messaggio evangelico, togliendo agli uomini il disperante peso della libertà e addossando a se stesso la responsabilità di imporre a tutti la verità e l'ordine, per dare a tutti, mediante la comune recettiva subordinazione, il pane, liberandoli dalle sofferenze. L'accusa è sottile. Come si dispongono, agli occhi di Dostoevskij, i torti e le ragioni? Qual è il suo vero pensiero? Vasilij Rozanov — ormai abbastanza noto anche da noi perché La leggenda del Grande Inquisiture, appena pubblicata da Marietti, è il quarto dei suoi libri tradotti negli ultimi anni in italiano — diede inizio con quest'opera scritta nel 1891 alla storia delle interpretazioni del pensiero dostoieschiano. L'ammirazione per il suo autore, il desiderio di comprendere tutto di lui in cui sentiva annodarsi i più drammatici interrogativi della storia del mondo, lo spinse persino a sposare, ventenne, la quarantenne Apollinarja Suslova, che era stata, ventenne a sua volta, la capricciosa e crudele amante del maturo romanziere. Non tutto quello che Rozanov ha scritto un secolo fa ha ancora un'attualità per noi. Gli ultimi capitoli del libro presentano le idee slaviste dell'epoca, facendo emergere da una improbabile psicologia dei popoli l'idea dell'universale missione salvifica della Russia. Ma innegabilmente Rozanov — personaggio singolare di cui la curatrice del volume Nadia Caprioglio traccia un efficace profilo — sa penetrare nella Leggenda e svelarne l'abissale enigmaticità. Ogni grande opera è del resto insondabile, intimamente contraddittoria, inesauribilmente interpretabile. L'introduzione di Vittorio Strada — illuminante per quel che riguarda gli influssi della Leggenda sulla letteratura successiva, non soltanto russa — afferma che «la Leggenda lacera ogni interpretazione». Dietro il volto del Grande Inquisitore — che infine Gesù, sempre senza parole, bacerà sulle esangui labbra prima che l'accusatore decida di lasciarlo libero nella notte intimandogli di non farsi mai più vedere — si possono scorgere volti diversi. Non solo il volto •del cristianesimo occidentale, sempre avversato da Dostoevskij, e non solo il volto dell'intera civiltà occidentale, ma il volto dell'incredulità, come infine svela, al termine del racconto, lo stesso Ivan; e infine il volto dello spirito maligno, che come già nel Getsemani, quando Gesù all'inizio della sua passione redentrice aveva baciato Giuda in cui era entrato Satana (Vangelo di Giovanni, 13, 21), torna a baciare nella notte di Siviglia. Rozanov riporta un brano da un articolo che Dostoevskji scrisse dopo una breve visita all'esposizione universale di Londra del 1863, in cui è dichiarata l'anticristicità dell'Occidente edificato in ultima analisi sull'«emendamento» del Grande Inquisitore: lungo il «Tamigi avvelenato», in «quell'aria impregnata di carbon fossile», «voi sentite la terribile forza che ha riunito lì tutti quegli innumerevoli uomini venuti da tutto il mondo a comporre un unico gregge; voi avete coscienza di un pensiero gigantesco; voi sentite che lì vi è una meta già raggiunta, che lì c'è una vittoria, un trionfo. Voi cominciate persino come a temere qualcosa. Non è questo, in realtà, l'ideale raggiunto? Pensate: non è la fine qui? Non è questo ormai anche in realtà un "unico gregge"?... Quello è non so che quadro biblico, qualcosa della Babilonia, non so che profezia dell'Apocalisse che si va compiendo definitivamente». Rozanov aggiunge: «Una volta nutrito, si sopirebbero nell'uomo le inquietudini della coscienza. Sembrerebbe di non essere lontani dalla verità dicendo che nella tentazione di ricorrere "ai pani terreni", impossessandosi così delle sorti dell'umanità, sia sottinteso uno spaventoso, ma efficace sbocco delle contraddizioni storiche: l'abbassamento del livello psichico dell'uomo. Soffocare in lui tutto ciò che è indeterminato, inquieto, tormentoso; semplificare la sua natura fino all'evidenza di aspirazioni poco lungimiranti, costringendolo a sapere moderatamente, a sentire moderatamente, a desiderare moderatamente: ecco il modo di soddisfarlo, finalmente e di acquietarlo». Evgenij Zamjatin, II'ja Erenburg e persino Lukàcs vedranno la positività del progetto dell'Inquisitore come figura del non dissimile progetto marxista. Per Rozanov, dietro il volto del Grande Inquisitore c'è anzitutto il volto di Dostoevskij. Dostoevskij «ha avvertito in modo impenetrabile e misterioso la reale assenza di Dio e la presenza di un altro, e, prima di morire, ci ha trasmesso l'orrore della propria anima, del proprio cuore solitario, che batteva impotente per Colui che non esiste, che fuggiva impotente da colui che esiste». Qui la negatività e la positività s'incontrano e si implicano, senza però che sia possibile una loro sintesi dialettica. Più che la nota lettura di Michail Bachtin, che vede nei romanzi di Dostoevskij la rappresentazione di concezioni ed esperienze diverse e irrisolte, credo ci porti vicino a intendere il significato dell'opera del grande scrittore russo la recente lettura proposta da Sergio Givone sviluppando alcune intuizioni di Pareyson: nella fede, il negativo e il positivo sono, come nella croce, inseparabili. La fede è questo baratro, dove il credere tocca la disperazione dell'incredulità. L'Inquisitore porta in stanche le stimmate della pietà («non esiste peccato, ci sono affamati e basta»), e persino del martirio, perché si addossa il duro peso di sapere che ciò in cui induce il popolo a credere è pura illusione. In lui, «troviamo una profonda coscienza della debolezza umana che rasenta il disprezzo per l'uomo, e al tempo stesso un amore che si estende fino alla disponibilità ad abbandonare Dio per andare a condividere l'umiliazione dell'uomo, la sua ferocia e la sua stupidità, ma anche la sua sofferenza». Dalla figura del Grande Inquisitore deriveranno così, nella lacerata Russia fra l'altro e questo secolo, due messaggi ugualmente drammatici ma diametralmente opposti. Quello di Vladimir Solov'év, che fu vicinissimo a Dostoevskij, e che nel Racconto dell'Anticristo rappresenta l'estremo sovvertitore nell'imperatore universale che non nega il bene, che anzi vorrebbe il bene di tutti, ma finisce per diabolicamente distorcere il bene in orgogliosa e fallimentare impresa umana. E il messaggio dello stesso Rozanov, che scrivendo alla fine della sua infelice vita L'Apocalisse del nostro tempo fa propria la tesi dell'Inquisitore, attribuendo proprio alla sublime e celestiale parola del Crocifisso l'avversione per la comune vita degli uomini, e quindi, infine, la responsabilità di aver condotto l'umanità, mediante la folle esplosione della rivoluzione per rivendicare il pane, all'epilogo apocalittico delia storia. Sergio Quinzio

Luoghi citati: Babilonia, Londra, Russia, Siviglia