«Voglio portare il Tibet a Ginevra»

«Voglio portare il Tibet a Ginevra» Il Dalai Lama, dopo gli incidenti a Lhasa, annuncia: «Il dialogo con Pechino è ancora possibile» «Voglio portare il Tibet a Ginevra» «I miei emissari sono pronti: non resta che discutere la formula dei negoziati da tenersi nella città svizzera» - «Se rientro ora, i cinesi mi tratteranno come un vip, mettendomi però un grande sigillo sulla bocca» - «Desideriamo uno statuto politico e il ritiro dei militari» Pubblichiamo un'internista al Dalai Lama, raccolta a Parigi, dove il capo spirituale tibetano — in esilio in India a seguito della rivolta anticinese del '59 — ha soggiornalo nei giorni scorsi dopo avere preso parte, a Strasburgo, a un colloquio sui diritti dell'uomo, organizzato dal Consiglio d'Europa. NOSTRO SERVIZIO «Ho appena preso una nuova iniziativa nei confronti della Cina» ci dichiara il Dalai Lama «Il 9 aprile ho fatto sapere all'ambasciata di Cina a New Delhi che sono pronto a mandare emissari a Hong Kong per ridiscutere la procedura dei colloqui che dovrebbero aver luogo con loro a Ginevra. Aspetto la risposta. Il dialogo rimane possibile nonostante gli ultimi avvenimenti a Lhasa. I cinesi sembrano sempre pronti a parlare. «Prima di ritornare in Tibet, comunque, bisogna attendere l'inizio delle conversazioni e vedere che cosa ne uscirà. Per il momento i tibetani, sebbene desiderosi di rivedermi il più presto possibile, mi hanno fatto sapere che sarebbe meglio aspettare. Se rientro, i cinesi hanno promesso di trattarmi come un vip, ma con un grande sigillo sulla bocca». Lei ha appena partecipato a un colloquio sulla «Universalità dei diritti dell'uomo in un mondo civilizzato». E' ottimista sul futuro di questi diritti nel mondo e nel Tibet? «Sì. Penso che questo sia un secolo cruciale per l'umanità. Offre l'occasione di una competizione tra le forze del male e lo spirito dell'uomo. Prima, la maggior parte della gente pensava che la guerra fosse l'ultimo mezzo di decisione. Ora, è vero che ci sono le armi nucleari, ma l'umanità è sinceramente preoccupata per la pace e conscia che la guerra non risolve i problemi. Ci sono delle ragioni economiche: la libertà è molto importante per lo sviluppo economico, senza di questa l'uomo non può usare la sua creatività. Esiste anche, nonostante i problemi, una tendenza a una migliore comprensione tra le diverse religioni». Lei ha dichiarato a più riprese che esiste un terreno comune tra buddismo e marxismo. L'intransigenza di Pechino nei suoi confronti l'ha indotta a modificare questo punto di vista? «Nel '54 e nel '55, in Cina, ho studiato alcuni aspetti del marxismo. Mi colpì il suo aspetto internazionalista e proletario per il quale, al di là delle frontiere, tutti gli uomini sono uguali. Il buddismo si preoccupa innanzitutto di quelli che soffrono, così come, nella teoria economica marxista, la distribuzione della ricchezza viene prima del suo incremento. «Io ho cercato di avviare un dialogo tra buddismo e marxismo per una ragione pratica: la Corea del Nord, la Cina, il Vietnam, il Laos, la Cambogia, la Mongolia, tutta questa grande parte dell'Asia è sotto controllo marxista. Un tempo lì il buddismo era fiorente. Anche oggi la fede resiste in fondo al cuore della gente. La popolazione ha molto sofferto per l'ostilità dei rapporti tra queste due ideologie. Se noi possiamo dialogare, il buddismo, la cui essenza è l'altruismo, potrà dare un grande contributo alla costruzione di un socialismo autentico». Oggi il marxismo ha il potere politico. Ma è invecchiato. Esistono di fatto due tipi di marxismo: quello autentico, che sembra accettare la realtà, e quello dogmatico, che non tollera nessun cambiamento e per il quale tutto resta immobile. Lei pensa che esista un declino dell'ideologia in Cina così come lo si nota in Urss? «In superficie le cose non sembrano essere cambiate. Ma molte persone hanno perso la fede in questa ideologia, in particolare gli studenti. Alcuni tibetani e alcuni cinesi mi hanno detto che, nel loro gruppo, la maggioranza non crede più nel marxismo. La situazione in Urss è cambiata più tardi che in Cina, ma è andata molto più avanti. Le ultime elezioni so¬ vietiche sono un fatto straordinario, che non potrebbe accadere in Cina prima di almeno cinque o dieci anni. «Seguo molto da vicino le manifestazioni in corso degli studenti a Pechino. Non so come finiranno. I dirigenti cinesi non hanno una linea di condotta logica. Hanno opinioni divergenti e i "duri" sembrano avere il sopravvento, anche nei confronti del Tibet: pensano che la repressione sia la sola soluzione. Sono molto preoccupato per il rafforzamento della linea dura». Nonostante a Lhasa continuino le repressioni, lei continua a raccomandare la non-violenza? «E' l'unico mezzo. Non ci sono alternative. C'è però un numero crescente di militanti, di giovani, tentati dalla violenza, dentro e fuori del Tibet. Ho passato molto tempo a spiegare loro che la violenza è assente dalla vita buddista. Inoltre, se guar¬ diamo la storia dell'umanità, vediamo che i successi nati dalla violenza generalmente non durano. Se si risolve un problema con la violenza, si corre il rischio di crearne altri. Infine, se noi manteniamo la nostra linea di nonviolenza, abbiamo la possibilità di cambiare il pensiero dei cinesi sul Tibet. Ma se usiamo la forza, sarà molto facile per loro trovare una soluzione violenta». Lo scorso giugno, lei ha proposto a Pechino un regime di associazione nel quale la Cina resterebbe responsabile della politica estera del Tibet. E recentemente ha proposto l'applicazione al Tibet della formula «un Paese, due sistemi», raccomandata caldamente da Hong Kong. L'intransigenza di Pechino l'ha indotta a modificare la sua posizione? «No. Bisogna che il Tibet diventi una zona di pace per il bene della sua popolazione, ma anche dell'India e della Cina. La principale preoccupazione di questi due grandi Paesi è lo sviluppo economico. Non vogliono la guerra e spendono somme enormi per la Difesa. Se noi troviamo un mezzo per ottenere il ritiro dei militari dal Tibet, sarà un guadagno per tutti, n mio sogno è un Tibet trasformato in un luogo di villeggiatura. Quello che mi auguro per il Tibet è uno statuto politico, in associazione con la Repubblica popolare cinese. Le mie dichiarazioni sembrano mettere a disagio il governo cinese, ma esistono due visioni della storia e della cultura del Tibet, così come delle relazioni tibetano-cinesi: quella dei tibetani e quella dei cinesi. «Il punto di vista cinese non può essere l'unico, bisogna prendere in considerazione anche il nostro. Io posso sempre dichiarare che il Tibet è una parte della Cina, ma questo non servirà a niente, la storia rimane la storia. La Cina ha esercitato una grande influenza sul Ti¬ bet, a volte anche sulla scelta dei suoi dirigenti, ma noi non abbiamo mai pagato le tasse alla Cina, come sarebbe successo se fossimo stati cinesi. «Nel '56 Chou Enlai disse a Nehru che Pechino non considerava il Tibet una provincia qualunque, ma che avrebbe beneficiato di uno statuto speciale. Lo stesso Mao Tze Tung mi disse: "Vi aiuteremo nei prossimi dieci anni a svilupparvi. Poi sarete voi ad aiutare noi. E ritireremo tutti i cinesi dal Tibet". Mao aveva aggiunto che il Tibet avrebbe dovuto conservare la sua bandiera. In seguito, il marxismo autentico ha cambiato ottica, è diventato più nazionalista e di idee più strette. «I cinesi non hanno respinto totalmente le mie idee. Continuano a dire che il dialogo è possibile. Io penso che il dialogo sia ostacolato soprattutto dalla loro ignoranza. Non capiscono il significato della nostra cultura e della nostra storia, non sanno che cosa sia successo da noi dopo la cosiddetta liberazione. A loro vengono mostrati soltanto gli aspetti positivi. Quando capita qualcosa di buono, lo gonfiano, quando ci sono dei problemi, li ignorano o li minimizzano. In quarant'anni, c'è stato un certo livello di sviluppo, più scuole, ospedali, strade, progetti economici. Ma che vantaggio ne hanno avuto i tibetani? Alcuni stranieri hanno notato che il Tibet aveva conosciuto un certo sviluppo economico, ma toccava i cinesi, non i tibetani». Hu Yaobang, l'ex segretario generale del partito comunista cinese morto la settimana scorsa, aveva auspicato una politica più aperta verso il Tibet. Quando venne eletto, nell'Ki, lei gli mandò un messaggio di congratulazioni. Pensa che, se fosse rimasto al potere, avrebbe potuto evitare le recenti violenze? -Ho mandato anche un messaggio di condoglianze dopo la sua morte. Se fosse rimasto al potere e avesse continuato la sua politica, il Tibet, come la Cina, avrebbe conosciuto una maggiore apertura e un maggiore liberalismo». André Fontaine Patrice De Beer Cop>righi «Le Monde» e per l'Italia «La Stampa»