Il prezzo di Verga

Il prezzo di Verga FOGLI DI BLOC-NOTES Il prezzo di Verga CASA Verga, Catania. Vorrei ripercorrere lo stesso itinerario di quella notte del 24 gennaio 1922, che vide la fine dello scrittore, in tutto e per tutto commisurata al personaggio. Solitaria e inconsolata come la sua vita. Un grande notabile dell'isola, reduce da tutte le esperienze continentali ed europee, frequentatore assiduo, e malinconico, del circolo dell'Unione (il circolo nobiliare-patriottico). Una dimora spaziosa, proporzionata al rango se non alle rendite del titolare, dove l'autore dei Malavoglia, già ottantaduenne e da poco più di un anno senatore, vive solo. Itinerario preferito: la sala da pranzo, con un mobile da cui, così ci dicono, venivano calate le vivande dal piano superiore, cucina e servizi. Un mobile scuro di sapore vagamente ecclesiastico, che ricorda gli interni delle chiese di Catania, le chiese del Barocco. Confinante: la bibliotecastudio. Il clou della casa, adesso un po' modificata e intasata. Dalla biblioteca, il passaggio nella camera da letto, ampia e perfino solenne. Un letto grande con due testate in legno massiccio; una piccola scrivania, un tavolo da lavoro di proporzioni ridotte, com'è nella tradizione dei mobili borbonici. Un mazzo di chiavi lasciate come se fossero state gettate la sera prima. Soffitti alti e tutta una galleria di ritratti della famiglia Verga, antenati, collaterali, un frammento di lui fanciullo... Il tutto tenuto con il decoro di un ••grande borghese»: scontroso e accigliato, ma ben consapevole del suo ruolo. QUELLA sera Verga rientra a casa accompagnato, come sempre, «.lai cameriere. L: come sempre congeda il cameriere sulla porta della camera da letto. Posa sul comodino l'ultimo libro giuntogli in dono, Natio borgo all'aggio di Ferdinando Paolieri, un singolare scrittore fiorentino, fra Fucini e vernacolo, di cui si è persa la memoria ma ihe allora andava per la maggiore. Mentre si sveste, lo scrittore e colpito improvvisamente da malore: trombosi. Tenta di resistere in piedi. Si accascia sul letto. I documenti del tempo confermano: «nessun rumore fu udito, nessuna lesione fu riscontrata sul corpo». Soltanto alle otto del mattino la cameriera, non ottenendo risposta, dette l'allarme. Agonia prolungata di tre giorni, ma senza mai riprendere conoscenza. Di fatto una morte «verghiana», chiusa nel segreto di una vita ripiegata sulla solitudine, ostile a tutti i cinguetti! mondani, solcata da una vena di pessimismo da Ecclesiaste. A vena di Verga scrittore ^si era esaurita da molti anni: chiuso il ciclo fiorentino e chiuso il ciclo milanese. Aveva un contratto di esclusiva con la Nuova Antologia: ma dal 1905 non se ne avvaleva. L'ultimo scritto comparso sulla rivista romana, a puntate, era stato Dal tuo al mio. Poco più che un lungo racconto, appena tre puntate. Respingeva le sollecitazioni di tutte le parti, Albertini compreso. Guardiamo la sua biblioteca. La raccolta di libri «propri» è discreta, appartata, tutt'altro che in proscenio. Ma si capisce che numerose edizioni hanno avuto solo le prime opere, quelle che egli poi supererà e in qualche modo sconfesserà, con la tematica dei Malavoglia e di Mastro clou Gesualdo: la Storia ili una capinera, per esempio, su cui piangeranno generazioni di fanciulle italiane. SONO cento anni dall'uscita di Mastro don Gesualdo. L'università di Catania è in festa; convegno internazionale di studi in suo onore; omaggio corale di una città che sente Verga come parte di un alto costume civile. Due versioni completamente diverse del romanzo (caso raro nella letteratura italiana del secondo ottocento). Quella destinata ad essere pubblicata a puntate sulla Nuova Antologia. Undici puntate, nell'estate autunno 1888. Compenso di tremila lire: sudate e sofferte e quasi strappate alla direzione del periodico. L'altra: quella in volume comparsa per i tipi di Treves all'inizio del 1889. SCETTICI, nel fondo, entrambi gli editori. Francesco Protonotari, il dominus àeWAntologia, fa capire attraverso Ferdinando Martini, che è il mediatore di tutto, di non gradire un testo ispirato a un verismo troppo crudo. E Verga a rassicurarlo (22 marzo 1888): «Caro Martini, puoi assicurare il direttore della Nuova Antologia: Mastro don Gesualdo non indurrà in tentazione nessuno dei suoi lettori. Né il nudo né il crudo mi son piaciuti mai di proposito». Treves avverte che il libro è difficile, che richiede un certo pubblico o meglio una certa preparazione culturale, che rompe tabù e pregiudizi. Lo stampa subito, ma a patto che l'autore gli prometta una «cosa» leggera, dal mercato sicuro e immediato. Grande mercante, contemperava il futuro col presente. FATICOSA e non priva di affanni anche la pubblicazione a puntate di Mastro don Gesualdo (Verga aveva sognato tanto di scrivere nella Nuova Antologia durante gli anni di Firenze capitale, dal '65 al 70, allorché frequentava tutti i salotti tranne quello Peruzzi, ma la porta della rivista non gli si era mai aperta: bisognerà arrivare al 1881 per avere un'anticipazione dei Malavoglia). Penoso negoziato, intanto, sulle 3000 lire. C'è una lettera a Martini di fine marzo 1888 patetica, accorante: «Pagamento a 30 marzo, o almeno 2000 lire a quella data, e 1000 il 15 aprile». E' una condizione «per me, in questo momento, essenziale». E poi c'è un'altra lettera, questa volta inedita, di Giuseppe Protonotari, che è subentrato al fratello nella guida della rivista: «Cifra un po' elevata... se ella credesse di fare su tale prezzo qualche agevolezza,..». Compromesso finale: il 1° luglio 1888 il dado è tratto. Ma anche durante l'uscita delle puntate — ce n'è una che sal- tera — non mancano i qui prò quo, gli equivoci, le pressioni. L'8 dicembre Verga invia le ultime pagine e rinuncia alla correzione delle bozze. Per ogni necessità fa il nome di un amico, «il signor Capuana, che abita in via in Arcione 88». Sono le ultime ombre di Firenze capitale, la città che egli aveva tanto amato. faccendieri che fioriscono ai margini della burocrazia fiorentinapiemontese è dedicata una commedia postuma di Verga, / nuovi tartufi, che io stesso ho stampato dieci anni fa, curata da Carmelo Musumarra. E' il Verga del '65-'66: tutto dalla parte dei fiorentini contro gli avventurieri, che si nascondono dietro gli «ostrogoti» e i «buzzurri» piemontesi, più conquistatori che liberatori. Verga, che è di matrice mazziniana e garibaldina, che proviene dalla Nuova Europa di Alberto Mario, coglie tutto il ridicolo di quella burocrazia, con quella capitale svogliata e scontenta che oppone al sogno dell'Italia nuova le estenuazioni, le dolcezze e anche le asperità sparagnine della Toscana. ERGA. Uno scrittore che appare molto più grande a noi che ai suoi contemporanei. E che non trovò, nell'Italia ufficiale, né riconoscimenti né premi adeguati alla sua eccezionale statura. Alla prima proposta di laticlavio, nel 1914, il presidente del Consiglio Salandra — che pure era professore universitario — oppose la mancanza di titoli accademici, l'impossibilità di inserirlo nella categoria del censo (come era stato fatto per Croce). Non pensò neanche per un momento che poteva avvalersi della ventesima categoria, quella dei «servizi o meriti eminenti» che hanno illustrato la patria (la categoria che aveva servito a Manzoni). Ci pensò, sei anni dopo, Giolitti. Fotse consigliato da Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione. Ma era troppo tardi. % ' Recandosi nella capitale, per il giuramento di palazzo Madama, Verga ebbe un'impressione disastrosa della città percorsa dagli scioperi e dalle violenze dei vari squadristi, tale che approfondì il suo distacco amaro da tutto. Il risarcimento senatoriale giungeva a Verga quando non poteva riaccendere più quella lampada. Il suo commento sarà lapidario: «Questo è il tempo dei fannulloni e dei succhioni ferroviari. Non parliamo delle poste e dei telegrafi». Il patriota garibaldino non si riconosceva in niente. Come ai tempi di Firenze capitale, l'Italia continuava a restare un sogno. Giovanni Spadolini