L'uso di Charlot di Stefano Reggiani
L'uso di Charlot L'uso di Charlot Quello sguardo umido, pietoso e orgoglioso, che avvolgeva l'interlocutore oltre i suoi meriti! Per anni Chaplin è stato adoperato politicamente, i suoi dileggi contro le scempiaggini del lavoro in serie si sono tramutati in esclusiva milizia ideologica e il suo sguardo è stato voltato dai nemici alle peggiori nefandezze. Per i conservatori il suo rimirare il mondo da malinconico uomo di successo era ambiguo e sfuggente come l'occhiata (naturalmente) di qualunque pacifista, o come lo sguardo, si disse, di Nehru, con l'imbarazzo languido di un non allineato. Viceversa, i più progressisti vedevano in fondo alla stradina, verso cui si avviava l'omino, splendete il sole di un immediato riscatto. Certo, Chaplin non fu un intellettuale moderato, subì interrogatori umilianti, fece dichiarazioni di fede nella Russia negli anni della grande spaccatura, e forse la sua virilità prorompente con appendice senile di figli dovette procurargli più di un'avversione (invidia). Ma qui si discute quel che fu più volatile intorno a lui, l'uso dei suoi capelli ormai bianchi come bandiera delle proprie avversioni o simpatie. II «grande mimo», come fu chiamato, non fu soprattutto un grande attore e autore? Egli ultimi film non meritano un giudizio ormai placato? La polemica contro la cattiva America che l'aveva cacciato giovò o non giovò a Un re a New York? La legittima antipatia verso gli intolleranti trovò le immagini giuste per esprimersi? (La Statua della Libertà che ondeggiava precaria, ripresa dall'elicottero...). Ci accorgiamo scrivendo che alcune polemiche sono inseparabili da Chaplin, legate ai suoi anni, a quelle alternative furibonde che incidevano anche sulla cultura; non sareb- be stato un grande artista se non avesse diviso il mondo, anche facendolo ridere. L'ultimo ricordo che abbiamo di Chaplin riguarda il glorioso tempo finale della sua vita, quando gli avversari avevano ormai fatto la pace sul suo corpo e si badava solo a celebrarlo. E' un ricordo cardinalizio, nel senso che Chaplin ci apparve malfermo e benedicente come un cardinale fuori età. A Milano per ritirare un premio decretatogli dalla città, ascoltò serenamente i discorsi già rievocativi e partecipò a una proiezione di Tempi moderni alla Piccola Scala. Chissà cosa pensava tra sé, mentre scorrevano le immagini e le musiche del famoso film («Io cerco la Titilla, la cerco e non la trovo») nel tempio della lirica (ma la grande Scala, a suo scorno, s'era defilata). Forse pensava: ecco cosa c'era in fondo alla strada, questa sala pimpante, queste poltrone di velluto. L'omino che nel film guidava per caso gli scioperanti si rannicchiò probabilmente dentro il grasso attore: quante cose deve imparare il comico, se diventa un patriarca. Si può chiedersi se il rapporto di Chaplin con le donne, come lo mostra il cinema, non sia indicativo di una difficoltà reale. Lasciamo stare le cattiverie (nelVEvaso Chaplin si distingue per il bel gelato buttato nella scollatura di una damazza), ma le grandi donne ideali dei film sono malate o impedite. In Ltici della città la bella venditrice di violette è cieca e solo per cecità può innamorarsi di un ometto come Chaplin. Ma quando riacquisterà la vista... In Luci della ribalta la sua compagna d'alloggio e di lotta è paralizzata alle gambe da una forma nervosa, ma quando sarà risanata... La guarigione della donna, nelle storie più significative di Chaplin, è sempre ragione di disamoramento, di libertà. Forse per questo si sposò tante volte, nella realtà, per dimostrare che non era un pitocco. Ma ci riuscì solo da ultimo, quando ormai era un maestro, un vecchio ingrassato e indiscutibile da offrire alla venerazione della Piccola Scala. Stefano Reggiani Charlie Chaplin in una caricatura di David Levine
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