Dieci anni per fermare il disastro

Dieci anni per fermare il disastro Dieci anni per fermare il disastro ta a causa della carestìa provocata dalla siccità: conseguenze della migrazione nel nord della fascia saheliana di migliaia di allevatori con le loro mandrie, attirati dalle copiose piogge che nel decennio precedente avevano rinverdito la regione, e cacciati dalle aree più meridionali impegnate in redditizie «colture per la vendita». L'ammassamento del bestiame e il suo troppo pascolare su un territorio semiarido distrusse la vegetazione e generò, all'arrivo della ciclica fase secca, la siccità. La crisi del Sahel non è terminata, coinvolge le popolazioni di Mali, Niger, chad e Sudan, spinte sempre più a sud dall'avanzare del deserto, alla ricerca di pascoli e di terre da dissodare. Il rischio di desertificazio- L, ULTIMO rapporto pubblicato dal Worldwatch Institute è senza dubbio la più allarmante fra le sei relazioni annuali su «Lo stato del Mondo» che dal 1984 redige il prestigioso istituto di Washington, fondato e diretto da Lester Russe! Brown. Il rapporto, 250 pagine dense di analisi, dati e proiezioni, mette l'accento su alcuni problemi: il mutamento del clima, il «buco» nello strato di ozono, il degrado del suolo e la crescita demografica. Chiede e suggerisce rimedi immediati, annunciando che se entro dieci anni nulla cambierà, i processi degenerativi in corso diventeranno irreversibili, «punti di non ritorno- verso l'eliminazione della vita sul Pianeta. L'alterazione del clima, collegabile a processi di inaridimento in molte aree del mondo, appare una delle questioni più gravi e di più difficile soluzione, per la complessità e la diffusione decentrata del fenomeno. Processi di desertizzione provocati da eventi naturali, dall'erosione e dai venti sono sempre esistiti, basti pensare all'alternanza di lunghe ere secche con altre umide che ha trasformato il Sahara nel più vasto deserto del mondo, dove le praterie verdi hanno lasciato il posto a pietre e dune di sabbia. La storia della vita nella regione è testimoniata dalle incisioni rupestri rinvenute in diverse aree, raffiguranti elefanti, giraffe, felini, gazzelle e altri animali della savana. A questo processo naturale si è sommato quello della desertificazione: l'inaridimento del suolo provocato dall'intervento dell'uomo. Un fenomeno dilagante. Ogni anno un territorio vasto come il Nord Italia si trasforma in deserto, altre plaghe tre volte più estese diventano sterili, improduttive, inadatte all'agricoltura e all'allevamento. La causa principale dell'impoverimento del suolo è la deforestazione, un processo incontrollato che distrugge ogni anno 100 mila chilometri quadrati di foreste pluviali (un'area grande un terzo dell'Italia). Gli incendi della giugla alimentano doppiamente quello che viene definito «effetto serra», gli alberi bruciati oltre a non riciclare più l'ossigeno, producono, nella fase di combustione, anidride carbonica. Dal 1850 l'anidride carbonica nell'atmosfera è au¬ mentata del 30 per cento soprattutto a causa dei combustibili fossili bruciati. Il Worldwatch Institute prevede il raddoppio della percentuale attuale (350 parti per milione) entro il 2030, se non si interverrà per mutare la tendenza. La pressione demografica, insieme a dannosi metodi di coltivazione e una zootecnia irresponsabile, contribuisce a esasperare il fenomeno dellla desertificazione. La coltivazione con il metodo del «taglia e brucia», diffusa in Amazzonia e in molti Paesi africani e asiatici, non rappresentava un problema finché era limitata a popolazioni poco numerose in relazione al territorio: l'esplosione demografica in gran parte del Terzo Mondo della produzione ceralicola negli Stati Uniti a causa della siccità provocata dalla progressiva distruzione della foresta amazzonica e dalla conseguente cessazione dell'«effetto spugna» (la regolazione delle precipitazioni creata dalla foresta pluviale), e dall'erosione a cui era sottoposto il terreno per l'eccessivo sfruttamento. Oggi quella previsione è realtà: dal 1984 la produzione di cereali è in costante diminuzione, negli ultimi due anni le riserve mondiali si sono dimezzate nonostante Cina, India e Filippine abbiano sensibilmente incrementato i loro raccolti di riso. La gravità del fenomeno è dilatata dal fatto che dai cereali americani dipendono decine di Paesi del Terzo Mondo che in caso di prolungata penuria del prodotto si ridurrebbero alla fame. I rimedi più validi per fermare l'avanzata del deserto sono i «frangivento aerodinamici» sperimentati con successo in Rajasthan, nel Marusthali (in sanscrito significa terra della morte) la parte indiana del deserto del Thar. Sono costruiti piantando alberi alti ai margini delle strade, alberi più bassi in seconda fila e piccoli arbusti nella zona adiacente. I frangivento riducono l'erosione, impediscono alle correnti di creare dannosi mulinelli, arrestano l'avanzata delle dune e dunque frenano la desertificazione. Le piante adatte a questi lavori di barriera sono la Casuarina, dal fusto alto e diritto, che cresce bene nella sabbia; le specie Leucaena. che crescono rapidamente e, se bruciate, arricchiscono il suolo perché fissano l'azoto; le specie Prosopis, resistenti alla siccità, che producono baccelli molto proteici, adatti come foraggio. Per arrestare l'erosione nei terreni collinari, il metodo migliore è la costruzione di terrazze , una tecnica utilizzata con successo da duemila anni nelle Filippine e adottata negli ultimi anni in modo massiccio in Cina, dove sono stati resi stabili dieci milioni di ettari. II rapporto del Worldwatch Institute propone un «piano d'azione globale», con accordi internazionali capaci di arrestare il processo degenerativo innestato. A che servirebbero i rimboschimenti in corso negli Stati Uniti e in Cina mentre si taglia la foresta tropicale al Borneo e in Amazzonia? E le barriere frangivento in India, se la desolazione del Sahara avanza implacabile? Marco Moretti Troppe le interp

Persone citate: Brown, Lester Russe, Marco Moretti