Non serve essere eroi se lo Stato dà forfait di Michele Pantaleone

Non serve essere eroi se lo Stato dà forfait La rinuncia del giudice Riggio al pool antimafia Non serve essere eroi se lo Stato dà forfait PALERMO — Il «caso» del giudice Gianfranco Riggio, il magistrato agrigentino che ha rifiutato di fare parte del pool antimafia dell'alto commissario Sica, perché la mafia ha minacciato di uccidere la moglie e le figlie, pone alcuni inquietanti interrogativi ed altrettante inquietanti considerazioni. La prima considerazione riguarda la constatazione che i violenti rigurgiti di attentati e minacce ai poteri dello Stato, ai suoi funzionari impegnati nella lotta alla mafia hanno coinciso con il disimpegno delle forze politico-parlamentari nella lotta al potere mafioso a tutti i livelli, come a dimostrare che, superati i difficili scogli dell'Antimafia, i boss hanno saputo, quando lo hanno voluto, risc^ ere i residui problemi locali e personali creati da funzionari dello Stato che hanno voluto continuare l'indagine, con la loro eliminazione. Convalidato dall'Antimafia nel Ì1)1H il «segreto funzionale» sulle schede degli «uomini dell 'amministrazione iklla politica e dei partiti»; negate dall'Antimafia nel febbraio-marzo del 1979 le schede dei suaccennati politici ai tribunali di Torino, Milano, Roma e Palermo, la mafia ha alzato il tiro e nel biennio '79-'80 ha eliminato •<i personaggi scomodi» che ancora continuavano ad indagare sui boss della mafia e sui politici boss. Caddero assassinati: Boris Giuliano, vicequestore; Giuseppe Russo, colonnello dei carabinieri; Cesare Terranova, magistrato ex membro dell'Antimafia e come tale depositario dei «segreti funzionali»; Emanuele Basile, capitano dell'Arma; Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo e con loro finirono «cadaveri eccellenti» anche Mario Francese, giornalista, e Michele Reina, segretario provinciale della de palermitana. La seconda considerazione riguarda i clamorosi precedenti al «caso» Riggio e in particolare le dichiarazioni di forfait dei quattro alti commissari per la lotta alla mafia nominati prima di Sica, forfait che in due casi sono stati autentici getti della spugna, e, tuttavia, conclusi con la giubilazione e designazione ad altri incarichi dei dimissionari. A questi fatti c a quelli nei quali furono cadaveri eccellenti Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici, Ciaccio Montalto, D'Aleo, Cassarà, Montana fino agli omicidi più recenti, hanno seguito le diatribe tra magistrati garantisti — rigidi osservanti di princìpi formali, oggi superati dalla mostruosa realtà e dalla dinamica criminosa che impone la mafia —, ed altri magistrati di Palermo il cui impegno nella lotta alla mafia è stato per alcuni anni, e continua ad esserlo ancora, punto di riferimento e di fiducia per quanti, in questa malridotta Sicilia, credono ancora nella giustizia. A questi inconcepibili fatti fanno cornice il senso di fastidio e di insofferenza nei partiti ogni qualvolta si fa cenno a veri e presunti legami tra mafia e politica, tra boss della mafia e politici boss; la caduta di impegno dei poteri dello Stato nella lotta alla mafia denunciata dal procuratore della Repubblica di Marsala dottor Borsellino, il cui clamore ha richiamato l'attenzione del Presidente della Repubblica on. France sco Cossiga e, tuttavia, tutto è rimasto come prima; gli assurdi, inconcepibili estranei aspetti della solidarietà omertosa e le non meno assurde «scorrettezze» che si riscontrano nei quattro volumi pubblicati in allegato alla «Relazione inerente alla pubblicazione delle schede predisposte dall'accennata commissione antimafia» (cifrario: doc. XXIII n. 3: atti parlamentari, stabilimento tipografico del Senato, Roma 1989). In questa realtà, un magistrato, a cui è stato minacciato l'assassinio della moglie e delle figlie ha il diritto, in nome proprio e in nome della massa dei cittadini che vivono in Sicilia esposti alla violenza mafiosa, isolati ed emarginati dal potere politico, di chiedere allo Stato quali margini esistono ancora per una vera ed efficace lotta alla mafia. Invchi riporre fiducia dopo la liquidazione del pool antimafia della procura della Repubblica di Palermo? Cosa dovranno fare i cittadini che vogliono dare un loro contributo per l'estirpazione della mala pianta della mafia — ammesso che ancora ve ne siano — dal momento in cui le lettere di denuncia e di richiesta di convocazione inviate alla commissione Antimafia nazionale e a quella regionale (se ci sei batti uri colpo) rimangono prive di risposta? Ed è da questo angolo visuale, e stando nella trincea Sicilia, che. nel bene e negli errori, vanno valutati alcuni gesti e alcune decisioni e non presumendo eroismi e sacrifici mentre lo Stato è latitante o è impotente, perché frenato dalla sua classe dominante. In ogni caso, la rinuncia del giudice Riggio ha i suoi risvolti positivi nell'identica maniera di come li hanno avuti il «caso Borsellino» procuratore del la Repubblica di Marsala e i «caso Palermo» che sono riusciti a catalizzare l'opimone pubblica nazionale sul pericolo immanente e reale della mafia. Di questo deve rendersi conto soprattutto lo Stato. Michele Pantaleone