Biennale: tagli e compromessi di Masolino D'amico

Albertazzi, faville di eros L'attore è in scena a Roma con «Dannunziana» Albertazzi, faville di eros Lo spettacolo mette insieme «La Gioconda», «Solus ad solam» e il brano originale «Il demone» - Bravissimo il protagonista (che è anche autore e regista) in «Solus ad solam» - Con lui in scena Mariangela D'Abbraccio ROMA — Dannunziana, di cui Giorgio Albertazzi è autore, regista e interprete, è in due tempi e in tre episodi I due che costituiscono la prima parte sono adattamenti di testi di Gabriele D'Annunzio, uno teatrale uno no: una sintesi della Gioconda (1898) intitolata La Gioconda nuda, e Solus ad solam, reintitolato Vertigine. Sono appunto due vertiginose storie d'amore, la prima dell'artista Lucio Settala, che invaghitosi perdutamente della sua modella ('tutto il corpo di lei è come lo sguardo») ha tentato il suicidio, e ora tenta di riprendersi mentre la moglie, "compagna della vita d'ogni giorno», affronta la rivale. Solus ad solam è 11 famoso diario intimo corredato da lettere con la cronaca della passione fiorentina dell'Immaginifico per una signora sposata ('Giusi, Giusini») la cui mente cedette fino a imporre un triste ricovero in clinica. Nel dialogo fra il poeta e la Giusi qui si inserisce, consolatrice, la voce di un'amica serena, traduttrice della Neve in polacco. La scena, unica per tutto lo spettacolo, è stata concepita dal pittore Lorenzo Fonda. Contro un fondale sul quale ogni tanto compaiono delle proiezioni, suggerisce uno studio d'artista, ma di artista di oggi con delle grandi tele fotografiche iperrealiste di torsi maschili e femminili che possono richiamare Lorenzo Tomabuoni e degli squarci di pareti coperti come da brandelli di manifesti stracciati, alla Mimmo Rotella. Sul palcoscenico ci sono poi da un lato un grande letto Inclinato, e dall'altro un cavalletto con una cornice vuota (la riempirà ogni tanto la «Gioconda», facendo balenare un bianco seno). Un giovane violoncellista in nero con camicia a sboffi compare e scompare suonando musiche proprie: nella vita si chiama Massimiliano Forza. L'ambiente è dunque moderno, e la volgare aggressività del mondo in cui viviamo è ulteriormente stabilita fin dall'apertura del sipario dalla voce di Albertazzi registrata e fastidiosamente amplificata. Moderno, o comunque risolutamente non fine secolo, è inoltre il caschetto di capelli neri sulla testa della vagheggiatissima Mariangela D'Abbraccio; d'epoca sono invece il vestito e il contegno di Tatiana Winteler, composta nello sfogo della moglie che pur di recuperare il marito, mente. Troppo drasticamente ridotto, indeciso fra il recupero filologico e l'aggiornamento fragoroso, il primo episodio zoppica. La parola dannunziana trionfa invece in tutta la sua impudica magnificenza nel secondo, dove Albertazzi tornando in sella a un collaudato cavallo di battaglia si limita a sfoggiare la mirabile gamma espressiva della sua voce inforcando gli occhiali e porgendo i testi ritto a un leggio, dove le due attrici lo coadiuvano adeguatamente. Questo pezzo vale la serata, anche grazie alla punta di ironia che l'attore vi fa vibrare. Peccato solo che tutto ciò avvenga davanti a dei microfoni, almeno per coloro che come chi scrive trovano tale mezzo in flagrante contrasto con la na¬ tura stessa del teatro. La seconda parte dello spettacolo, che come la prima dura un po' meno di un'ora, è costituita dall'episodio intitolato II demone. Qui D'Annunzio è presente solo in qualche citazione — in particolare, in una sardonica esecuzione della «Pioggia nel pineto» alla maniera di Maria Melato. Per il resto Albertazzi nei panni di un altro se stesso («attore e scrittore»), scusandosi ripetutamente dell'autoindulgenza come certi ubriachi, ci attacca un lungo bottone pieno di richiami letterari e teatrali sulla propria divorante ossessione erotica per le carni di una femmina che di nuovo Mariangela D'Abbraccio è docilmente incaricata di rappresentare. Nel corso della chiaccherata, l'attore si autoumilia a burattino, si divincola goffamente in una specie di rock, si trucca da pagliaccio mettendosi il rouge sulla bocca e sulle guance. I momenti brillanti non mancano, ma l'insieme oltre a imbarazzare leggermente, ci allarma nel suo non lasciarci mai intrawedere una mela. Questa viene raggiunta quando dopo essersi camuffata chissà perché da scugnizzo napoletano, e avere anche cantato una canzonetta in quel dialetto, la D'Abbraccio si lascia spogliare e ungere d'olio, o forse cospargere di benzina. La seconda ipotesi sembra più plausibile, in quanto a questo punto il buio nasconde gli amanti, mentre il corpo della donna, proiettato sullo schermo del fondale, viene divorato dalle fiamme. Masolino d'Amico Mariangela D'Abbraccio in una scena di «Dannunziana»

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