Sintetizzatori di noia di Enzo Gentile

Sintetizzatori di noia Rock elettronico, un genere ormai in decadenza Sintetizzatori di noia Le ultime proposte: Tangerìne Dream, Boy George, Depeche Mode IL segno elettronico che nel rock, secondo taluni, ha provocato da diversi anni un aumento considerevole del tasso di inquinamento, continua a imperversare sul mercato. Non è sembrato un deterrente sufficiente l'ingresso in forze di quel cantautori e artisti nostalgici di una certa vena acustica, memore dei bei tempi andati, a scoraggiare produttori e gruppi. La spallata tecnologica viene ribadita anche in queste settimane con la tempesta di colpi portati dai nuovi virgulti della House music, generosi nell'uso delle macchine, non solo anche nomi affermati, addirittura storici, mostrano di avvertire il fascino per quell'Inclinazione, per quell'impronta industriale, plasticosa che l'abuso della sintassi elettronica lascia emergere necessariamente. n record di fedeltà e di pervicacia a quegli schemi che giusto una ventina d'anni fa 11 rivelarono come massimi esponenti delle differenze, spetta ai tedeschi Tangerine Dream, aedi di un'improbabile perturbazione cosmica, corrieri di un'intuizione ben presto appassita. Con Optical race (Private/Bmg) la band guidata ancora e sempre dal padre-padrone Edgar Froese è pervenuta al suo ventottesimo album (undici da inserire nella famiglia delle colonne sonore), che sicuramente non è il migliore della serie, né il più raccomandabile. Svanito quel desiderio di sperimentazione visionaria, infranto l'incantesimo degli avventurieri in corsa verso il futuro, ai Tangerine Dream è rimasto un manierismo soft che ha tutti i lineamenti caratteristici della canzonetta travestita e imbellettata. Optical race, registrato tra Berlino e Vienna è un disco di riflusso, capitolo di imborghesimento e di pigrizia con cui Froese sembra abdicare al ruolo originario. Ma d'altronde dalla scuola rock «made in Germany», in questi tempi, non è lecito attendersi nulla di buono o di stuzzicante. E con questo il libro è chiuso. Diverso è il discorso, giocato con quella dose di ironia e di esuberanza maldestra che qualche volta non guasta, che tocca fare con i Sigue Sigue Sputnik. Salutati sciaguratamente come ultimi messia del nuovo rock, ne! 1986, in occasione del loro esordio a 33 giri, Flaunt it, i Sigue Sigue Sputnik esibiscono ancora oggi la carta dell'eccesso, da bravi estremisti del pop di consumo, n loro Dress far excess (Emi), sottotitolo «We invented the future», offre in confezione-regalo una sequenza di motivetti prodotti con mano illuminata, cavalcando con puntiglio la voglia feroce di fama e successo. Le dieci canzoni della raccolta riferiscono di una band rampante, di poco cuore, senza un filo di anima, ma con la croccante lucidità spesso posseduta dai vincenti: tra i solchi firmati dai Sigue Sigue Sputnik sfilano tracce di rock'n'roll, ballate acustiche, fremiti dance, rigurgiti del più tifeco pop per radio di serie B, in una caotica girandola, tanto sfrenata e sguaiata da risultare persino divertente. Un sintetico godereccio, insomma, che non deve avvilire i buongustai, né far pensare alla formula di lunga vita per il rockettino quotidiano: semmai un frizzante sorso per una svagata, umorale, radicale botta di vita. Provoca invece sconcerto l'episodio più recente della carriera di Boy George, che al Tens nervous headache di qualche mese. ha appena fatto seguire Boyfriend (Virgin), un album che procede a sussulti, greve, onorato da un'aggressività spesso superflua, grondante di quei timbri un po' scontati, da piccolo chimico dell'elettronica, basato sull'apporto di un crepitare insistente quanto depresso, avaro di spunti creativi. Boyfriend intende forse accodarsi alla moda house, e quel brulicare furente che mal si associa all'immagine e alla storia di un artista per anni vissuto sulle fortune pa- rallele della musica leggera, sul repertorio di canzonette placide e indolori. Qui Boy George forza con scarsi risultati, figurando come uno stranito, stordito robot, alle prese con un magma sonoro che non parla la sua lingua: in queste otto selezioni viene incalzato, vessato, sfigurato dalle sollecitazioni di un repertorio sbagliato, un pastiche orgiastico che al suo viso paffuto, roseo, fondamentalmente perbene si adegua a fatica. Fedeli alla linea di una strategia commerciale che da anni li pone tra i protagonisti di una dance music qualificata, dalla personalità ben chiara, mantengono il passo i Depeche Mode, che nel doppio live Ioi (Mute/Ricordi) ripropongono una galleria di successi inscritti nel loro curriculum degli Ottanta. Nato in un concerto dei 18 giugno 1988 al Pasadena Rose Bowl. l'album è impaginato con eleganza grazie alle splendide foto di Anton Corbjin e si giova di quella cortina plumbea, di quella cupa atmosfera che la band ha sempre privilegiato per accompagnare il materiale sonoro. Ioi non aggiunge nulla a quanto saputo sui Depeche Mode, ma ne eleva la cifra stilistica, segnalando quel morbo di decadenza, quell'ombra malsana che deriva dalla disumanizzazione dell'era tecnologica. Enzo Gentile Illustrazione di Piero Figus

Persone citate: Anton Corbjin, Boy George, Dream, Edgar Froese, Piero Figus

Luoghi citati: Berlino, Vienna