Boldini gnomo incantatore

Boldini gnomo incantatore TRECENTO OPERE IN MOSTRA A MILANO Boldini gnomo incantatore MILANO — Alla Promotrice, fino al 14 maggio, 148 fra olii e pastelli (la tecnica prestigiosa di Degas, De Nittis, Zandomeneghi) e altrettanti fra disegni e incisioni, in più «stati», di Giovanni Boldini (Ferrara 1842-Parigi 1931): tutto il bene e tutto il male di un pennello prodigioso e antipatico nel suo formalismo di superficie — le chic -—, come si diceva e si scriveva ai suoi tempi di gloria mondana, dai Goncourt a Proust. Quanto ai tempi dell'arte, si passa dal versante più lucidamente borghese dei Macchiaioli all'intervista che non per caso gli chiese e ottenne nel 1925 De Pisis appena arrivato a Parigi. Non per caso, intendo, in quanto nessuno, né allora né oggi, può negare a Boldini la virtù, dopo la scoperta nel 1876 in Olanda dei ritratti di Frans Hals, e portando alle estreme conseguenze lo sfarfallio di pennellate e di luci del «genere» in costume settecentesco di Meissonier, di Fortuny, di Monticelli, di aver «dinamizzato» forme e spazi pittorici con un anticipo di trentanni sui Futuristi. E per di più, ai nostri occhi educati dai linguaggi pittorici del XX Secolo, scartando — coscientemente, nei limiti di quell'epidermica coscienza culturale che la sua «talentuosa» straripante natura gli concedeva — la via che dall'Impressionismo al Postimpressionismo conduceva alle premesse del Futurismo e inaugurando invece quella del gesto e del segno: la via, insomma, dell'espressione. Senza che nemmeno lo sfiorassero quelle angosce soggettive, esistenziali e collettive, che nutrirono l'Espressionismo vero. Si era appena stabilito nel 1871 a Parigi entrando in rapporto • on il mercante Goupil, e nel 1874 Yan Gogh, impiegato nella sede londinese di Goupil, scriveva al fratello Theo: «Abbiamo qui parecchie belle cose... un bel Boldini». Fulmineo Su questo incomparabile fenomeno di un sovvertitore della forma pittorica nel contesto e al servizio della più esteriore e reazionaria società della belli epoque, incomparabile anche come fulmineo documentatore dei più fuggevoli attimi del comportamento e del costume, cito tre testimonianze lungo l'arco della fase più creativa. Diego Martelli nel 1878: «E' un tale ammasso di lasciato e di fatto, di falso e di vero, che bisogna prenderlo com'è». Un critico francese del Salon del 1881, a proposito di un Portmit de Alme la conitene ile R. che è forse Lti contessa Gabrielle de Rasty del 1878 in mostra (una fra le prime e le tante modelle-amanti di nobiltà molto demi-mondaine): «Un quadro tutto ad accenti e virgole, in cui i luccichii del satin distruggono la forma essenziale del corpo». Soffici, sulla Voce nel 1909: «Vi è un lampo di vita fuggevole ed egli l'esprime con un frego, in uno svolazzo, in un fiocco; lo suggerisce con un tocco rozzo o livido sulle labbra, con un cerchio paonazzo intorno a due occhi febbrili, lo fa tremare in un ricciolo di capelli ribelli su una nuca di donna. E lo fa bene». Non parla di Boccioni pre o protofuturista, parla di Boldini. Ho detto di un rapporto squilibrato fra temperamento naturale e densità di appercezione culturale («bisogna prenderlo com'è», detto dal sensibilissimo Martelli). E' la I favola di chi si sente «in pro' vincia» nella Firenze macchiaiola, pur coccolato in casa Banti e vestito da Delfino, il miglior sarto sulla piazza, per cui sfrutta con assoluta spregiudicatezza le entrature nella «colonia» inglese prima in loco e poi nel 1870 a Londra, tappa per il balzo a Parigi. Nel 1872 è già in grado di mandare clienti a Signorini a Firenze, nel 1873 gli scrive: «I miei affari vanno benone, Goupil ha comprato tutti i miei quadri». In mostra è Place Clichy del 1874. E' unaw/iwM, un capolavoro e un repertorio di vezzi e di lusinghe pittoriche. V'è ancora nelle case la fermezza bloccata di luce e di colore delle prime opere fiorentine, pur già fruscianti di amore per le sete, i velluti, i parati, sul versante dunque di Cenoni, di D'Ancona, di Banti: ne fanno fede i tre ritiatti 186566 della famiglia Banti, con probabile eco del passaggio di Degas in casa Bellelli. V'è nell'alto cielo e nella luce nordica non più d'una eco dei minori Impressionisti oggettivi, filtrato attraverso De Nittis e Whistler. Ma vi è anche nel frizzante, pettegolo racconto della vita di strada in punta di pennellino la trasformazione in vie moderne della brillantissima pittura di consumo in costume settecentesco su cui si basa la sua fortuna presso Goupil, oltre che sul nascente ritratto mondano. Alcuni disegni di quegli anni, fra i primi esposti, contengono già in nuce la libera fulminea irradiazione di segni e di virgolature, cioè il balzo in avanti che si pronuncia fra gli anni 1870 e '80, fra La conlessa Gabrielle de Rasty e lo stupefacente pastello del Pianista A. Rey Colaco. Un punto nodale dovrebbe essere rappresentato da due tele datate in catalogo 1874 circa, i Due cavalli bianchi del Museo Boldini di Ferrara e // bimbo col cerchio di collezione privata. Purtroppo il pur ricco catalogo Mazzotta, con una preziosa scelta, a cura di Et¬ tore Camesasca, di parti di un manoscritto dedicato a Boldini da Pier Maria Bardi e un perfetto regesto biografico, indulge alla cattiva abitudine di non schedare le opereesposte. Per cui bisogna andare a cercare un presumibile riferimento ai due dipinti (frammenti? bozzettoni?) nel bel saggio in catalogo di Alessandra Borgogelli, che ne parla come di frammenti di una tela divisa dallo stesso autore, Bimbo salvato dai cavalli sul ponte di Saints-Pères. Perché allora non accostarli in mostra? E su quale base la tela originaria viene identificata con Pont des Saints-Pères esposto al Salon del 1874? Non mi soffermerei tanto su questi problemi, se non per il fatto che il frammento con il bimbo, a cui indubbiamente si attaglia il titolo indicato dalla Borgogelli, è veramente emblematico dello snodo fondamentale della pittura di Boldini. Il bambino strappato dal pericolo è già colto nell'immediatezza dell'attimo, ma è ancora dipinto con tutte le sodezze e i succhi cromatici del «genere»; la ragazza che lo trascina in salvo sul marciapiede è un fantasma bianco vibrato e dissolto dal fulmineo movimento, in modi che compaiono solo negli anni 1880 e '90. Ancora negli Anni 1880 vi è alternanza fra stupende densità di luce modellante, «italiana», come in Place Pigalle del 1882 o anche nei famosi ritratti di Verdi a olio e a pastello del 1886, e lo «chic parigino», rivoluzionario, elettrico, indifferentemente dispiegato nel capolavoro di ritratto-sogno. Il pastello bianco, nelle prime Venezie, persino nel ricordo fattoriano dei Buoi maremmani. Fendenti Da qui in avanti, e per più di trent'anni, la padronanza virtuosa dello strumento (polso-pennello-plasma pittorico calorosissimo) varca ogni limite, in una gestualità a sprazzi, fendenti, raggiere, volute, che persino sembra anticipare la grafia espressionista dello Spazzapan Anni 30 o le tempeste di segni e di grumi di De Pisis; due paragoni che non riesco a reprimere se non chiudendo gli occhi, e che pure sento condannabili e sul piano umano e sul piano culturale. Ma tant'è: citando un'ultima volta Diego Martelli, «egli vi affascina, vi corbella, vi mette il capo sottosopra; sentite che quella faccenda che avete sotto gli occhi è una profanazione della vostra divinità, ma pur tuttavia ci provate gusto, lo gnomo vi inviluppa, vi stordisce, vi incanta». Marco Rosei Boldini: «Alaide Banti in bianco» (1866), e «Il pastello bianco: Emiliana Concha de Ossa» (1888)