La «colomba» vittima del ciclone Rushdie di Igor Man

La «colomba» vittima del ciclone Rushdie La «colomba» vittima del ciclone Rushdie «La guida della Repubblica islamica è compilo terribilmente difficile che richiede doti maggiori di quelle che lei possiede», così, seccamente, scrive Khomeini nella lettera con cui ha accettato le dimissioni, rese per iscritto, del Grande Ayatollah Montazeri. Dimissioni, quelle di Montazeri, da una carica tutta particolare che avrebbe dovuto gravare sulle sue solide spalle di contadino soltanto dopo la morte dell'imam: la carica di Guida Suprema, la stessa, insomma, che Khomeini, a dispetto dei suoi 87 anni e grazie a una «pessima salute di ferro» ricopre invero con grinta. Il Grande Ayatollah Montazeri venne nominato «delfino» dell'imam nel novembre del 1985, dopo lunghe estenuanti riunioni del cosiddetto Consiglio dei Saggi o Comitato degli Esperti. C'è da dire che lui, Montazeri, quando gli venne proposto di candidarsi scrisse a Khomeini di non considerarsi all'altezza di un «compito talmente immenso e pesante». L'imam gli rispose con la brutale franchezza che gli è propria, d'essere d'accordo, aneli'egli non riteneva il suo allievo degno di un incarico tanto prestigioso ma poiché, carte alla mano, gli Esperti erano lì a dimostrare che l'unica soluzione possibile, di «saggio compromesso», era quella e quella soltanto, Khomeini costrinse Montazeri ad accettare. Montazeri faceva parte della «corrente» dei duri e puri. Suo figlio, un giovine dottore coranico acceso da furori rivoluzionari c che a Teheran chiamavano Ringo, era morto nel 1981 in uno dei quei terribili attentati dinamitardi che avevano decapitato il vertice islamico. Ringo appena un anno prima aveva arruolato volontari per il Libano ma l'Olp li rimandò indietro non fosse altro perché il giovine Montazeri intendeva con quel plotone di uomini esportare la rivoluzione khomeinista. Il «delfino» di Khomeini non s'è mai stancato di predicare quella «esportazione ideologica». L'uomo buono per tutte le stagioni, come, con sarcasmo animoso, lo ha sempre chiamato il suo grande rivale, il presidente del Parlamento, Rafsanjani, in verità è un rivoluzionario convinto, un oltranzista. Fu un suo fido, Sayed Mehdi Hashemi, fratello di Hadi, capo costui della segreteria di Montazeri, a far scoppiare l'Irangatc. La storia va raccontata, aiuterà a capire l'apparente imbroglio iraniano. Nell'estate del 1986, Rafsanjani cerca un buon rapporto con l'Arabia Saudita nella prospettiva d'una «soluzione negoziata» nel conflitto con l'Iraq. Mehdi Hashemi spedisce i suoi uomini a Gedda, carichi di 51 chili di tritolo da servire per un attentato che avrebbe certamente mandato in fumo l'azione diplomatica di Rafsanjani. Ma i «servizi» sauditi arrestano gli animosi e li consegnano alla polizia segreta di Khomeini. Cinque dei terroristi mancati, messi sotto torchio dallo hojatoleslam Ray-Chary, nemico acerrimo di Montazeri, fanno il nome del loro mandante: Sayed Mehdi Hashemi, capo dell'Ufficio per l'aiuto ai movimenti di liberazione islamici. Hashemi viene arrestato e messo a morte per aver «truccalo da delitto politico un assassinio abbietto commesso durame la rivoluzione»... Per vendicarsi, i seguaci di Hashemi distribuiscono volantini che denunciano la combutta di Rafsanjani con il Grande Satana americano. Il 3 novembre, infine, fanno fare alla rivista libanese Al Shiraa lo scoop del secolo: »£ grazie a una visita segreta di McFariane a Teheran che l'ostaggio americano David Jaco- bsen, è stalo liberato». E' l'Irangate. Ma l'irangatc non distrugge Rafsanjani che riuscirà: infine, il 18 luglio del 1988 a convincere l'imam ad accettare la 598 sconfiggendo, così, i puri e duri: primo fra tutti Montazeri. Nel decimo anniversario della rivoluzione, nel febbraio scorso, il «delfino» afferma pubblicamente che «gli obbiettivi della rivoluzione non sono slati raggiunti", e accusa i dirigenti della Mullahcrazia «inetta e trafficante- di aver commesso «gravi errori». di avere offuscato «l'immagine splendente» della rivoluzione: «Spesso abbiamo dato prova di stupida ostinazione, urlando slogan assurdi, alienandoci le simpatie del mondo, col risultato infame di far credere a tutti che in Iran avevamo un solo obbiettivo: quello di uccidere chiunque e comunque». Frettolosi commentatori vedono nel j'accusc di Montazeri l'allineamento del «delfino» con i pragmatici di Ra¬ fsanjani. Ma l'imam capisce che quell'attacco tremendo è rivolto a lui. E quando Montazeri invoca «la grande amnistia» per celebrare degnamente la rivoluzione, Khomeini commenta: «Sento puzza di una vecchia invenzione tipicamente colonialista, quella dei diritti dell'uomo». Infine scoppia il caso Rushdie che e soltanto un pretesto, la solita carta cavata dal turbante di Khomeini nei momenti difficili. Dicci anni fa fu l'occupazione dell'ambasciata adesso la condanna di uno scrittore blasfemo: sempre per ricucire la sua rivoluzione. Nel ciclone seguito al caso Rushdie, Montazeri viene spazzato, come abbiamo visto. Ma non è da credere che sarà il solo. La sua caduta non segna, infatti, la vittoria dei pragmatici, il recupero di Rafsanjani in grave debito d'ossigeno. A ben vedere chi esce vincitore in questo momento dalla terribile lotta per la successione che oramai dal 1985 dilania l'establishment in turbante, è il figlio di Khomeini: Ahmed. Egli gioca, ostinatamente accanto a suo padre, il ruolo che giocò la moglie di Mao. al tempo della famosa banda dei quattro. Finché vivrà suo padre nulia in Iran potrà farsi e darsi senza il suo placet. Chiunque osasse cercare, affermare un minimo di autonomia dovrà fare i conti con lui. Igor Man

Luoghi citati: Arabia Saudita, Gedda, Iran, Iraq, Libano, Teheran