Se l'università insegna Teatro

Se l'università insegna Teatro IN VOLUME IL DIBATTITO INTERNAZIONALE SU UN RAPPORTO CONTRADDITTORIO Se l'università insegna Teatro Cosa può tare l'università per il teatro? Ho sempre pensato che le facoltà umanistiche, attraverso le varie discipline dello spettacolo, oggi, in vari atenei, molto articolate, possano, anzi debbano insegnare a saper guardare lo spettacolo, trasformando i propri studenti in spettatori culturalmente agguerriti e consapevoli delle complesse componenti dell'evento teatrale. Ritengo anche che a un livello più specialistico l'università, quando disponga di docenti preparati, possa formare un ristretto numero di studenti a descrivere uno spettacolo, facendone in qualche modo gli aspiranti critici teatrali di domani, sui giornali, alla radio o alla televisione. Penso infine — ma qui siamo certo a un grado molto sofisticato e raro di addestramento professionale — che l'università possa insegnare a qualche discepolo dotato a riscrivere, per cosi dire, lo spettacolo: possa cioè avviarlo ad una professione da noi ignota, ma in Germania abbastanza diffusa, quella del drammaturgo, dell'intellettuale che affianca il grande regista (ad esempio, in una struttura teatrale pubblica) e legge per lui centinaia di copioni, per lui traduce, riduce e adatta questo o quel classico per una prossima messinscena. E' stata, all'opposto, mia ferma e costante convinzione che l'università non debba, neppure in forme mediate e indirette, formare atton. Ho sempre visto con terrore ridestarsi tra alcuni miei colle ghi d'università delle mal so pite vocazioni all'allestimento di copioni (talvolta, pur¬ troppo, scritti da loro stessi): e considererei deleterio che queste vocazioni avessero a sbocciare una volta per tutte, anzi si moltiplicassero a raggiera. Sono questi, certo, personalissimi punti di vista: e che la situazione del rapporto teatro-università sia nel mondo oggi assai più variegata e contraddittoria ce lo conferma la ripresa in volume d'un convegno svoltosi nel maggio scorso a Bologna, nell'ambito delle celebrazioni del nono Centenario, i cui atti sono stati tempestivamente raccolti da Simona Caducei ed editi dall'Associazione Nazionale Critici di Teatro (Teatroe Università). Degli interventi dei quaranta e più ospiti, giunti da ogni parte del mondo, mi è ragionevolmente impossibile rife¬ rire. Ma un'impressione almeno del fenomeno nella sua globalità tenterò d'offrire al lettore. Diciamo allora che sulla stessa linea di un nesso strettissimo, quasi necessitante, tra università e teatro si ritrovano le due nazioni che stanno su opposti fronti nelle varie manifestazioni del vivere sociale, Stati Uniti e Unione Sovietica. Sia oltreoceano che oltrecortina, insomma, le arti del teatro vanno assolutamente insegnate all'università. Ma mentre gli americani sono perché codesto insegnamento venga impartito proprio all'interno delle preesistenti strutture universitarie, con la creazione di appositi dipartimenti (le Drama Schools, con insegnanti del mestiere, materie circoscritte e molto «tecni- che- — fonazione, dizione, espressività corporale —, aule e palestre e sale tecnologicamente assai attrezzate), i sovietici sono per considerare a livello universitario, con tanto di conclusivo diploma di laurea, le grandi scuole statali della loro gloriosa tradizione. Nel volume di cui riferisco, e che costituisce un primo rapporto sullo stato del problema, Ron Jenkins, che è professore all'Emerson College di Boston, può giustamente magnificare il gran lavoro svolto dal 1978 ad oggi. all'Università di Harvard, proprio dentro le strutture, da Robert Brastein, cioè un uomo di teatro militante, e dal suo American Repertory Theatre, che dà agli studenti l'opportunità di studiare e formarsi con attori e registi professionisti. Ma, poche pagine più in là, Sergej Issaiev ha facile gioco a ricostruire la storia ormai secolare isono centodieci anni, per l'esattezza) dell'Istituto Statale d'Arte Teatrale A.V. Lunacarskij di Mosca, di cui è rettore: un'immensa -casa del teatro- (duemila allievi) in cui hanno lavorato Stanislavskij e Mejerchol'd e in cui oggi insegna il Vassiliev degli -scandalosi- Sei personaggi visti a Milano. E negli altri Paesi d'Europa le cose come stanno? La situazione è molto diseguale da nazione a nazione. Nella coltissima e attivissima teatralmente Germania la celebre Accademia Teatrale di Berlino non può (o. arcignamente, non vuole?) offrire più di venti posti da attorelaureando a qualcosa come seimila giovani aspiranti (la testimonianza, di fede degna, è di Peter Stein). In Bel¬ gio non solo l'idea che si possa studiare da attore all'università è sacrilega, ma anche gli studi teatrali storico-critici sono guardati ancora con un certo sospetto: e lo racconta Carlos Tindemans. che insegna ad Anversa. In compenso in Francia — ce lo comunica in un suo appassionato scritto l'ex direttore generale per lo spettacolo presso il ministero della Cultura Robert Abirached — il suo ministro e quello della Pubblica Istruzione hanno firmato, sin dal 1983, un protocollo d'intesa, in base al quale gli studenti del liceo e, in genere, delle superiori hanno potuto optare per una nuova disciplina, la storia, teoria e pratica teatrale, e i più vecchi l'hanno già presentata come materia facoltativa al baccalaureat, alla maturità, nel giugno dell'anno scorso. In Italia, è amaro sottolinearlo, di educazione teatrale nella scuola dell'obbligo (dove pure si insegnano educazione musicale e artistica) non s'è mai parlato: l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica attende invano che la si equipari ad un istituto universitario: e il leggendario Dams di Bologna — sono precisazioni di un suo autorevole docente. Claudio Meldolesi — può avere un professore a contratto ogni due anni, quando dovrebbe poterne ingaggiare dall'esterno una decina all'anno. Quanto all'ipotesi che il ministro Carraro si rechi a trovare il ministro Galloni per proporgli d'introdurre la storia, teoria, pratica teatrale almeno in chiusura degli studi, lasciate che la consideri altamente improbabile. Guido Davico Bonino