Sotto i veli del cinema di Khomeini

Sotto i veli del cinema di Khomeini COME SONO I FILM IRANIANI, 10 ANNI DOPO LA RIVOLUZIONE ISLAMICA Sotto i veli del cinema di Khomeini Presentate alla Mostra del film d'autore di Sanremo le opere del regime degli Ayatollah - Melodrammi didattici in nome di Allah - Parlano un regista e un produttore: «Niente sesso, neppure baci né carezze. Sempre coperti i capelli e le gambe delle donne. Nulla contro la religione» - «Khomeini vede molti film, in cassetta, sullo schermo del televisore» DAL NOSTRO INVIATO SANREMO — «In nome di Allah misericordioso e pietoso» è la prima frase che compare sullo schermo, all'inizio del film iraniano La terra delle promesse e di tanti altri: «E' il motto necessario, l'invocazione con cui cominciano da noi tutte le attività e le cose, non soltanto i film o i libri», spiega Shoja Noori, direttore a Teheran della Farabi Cinema Foundation. Il cinema di Khomeini, nato con il 1979 della Rivoluzione islamica in Iran, compie dieci anni e resta quasi sconosciuto: s'erano visti rari film in qualche festival, adesso una piccola rassegna presentata alla Mostra del film d'autore di Sanremo consente di scoprirne un poco di più. La censura, per esempio, cosa vieta? «Il sesso. Niente sesso, neppure baci né abbracci né carezze. Il problema principale è l'abbigliamento- femminile: tutte le donne, dalle ragazzine puberi alle vecchie, debbono avere sempre le gambe coperte, i capelli nascosti da quell'ampio fazzoletto o scialle chiamato maghnae. Nei film non dev'esserci nulla contro la religione, contro idee o simboli religiosi: del resto, oggi a nessuno verrebbe in mente di presentare copioni con elementi simili». La libertà d'espressione? «E' limitata. E comunque potrebbe riguardare le cose umane, non quelle divine». Ma Khomeini al cinema ci va? «Vede molto spesso film: in cassette, sullo schermo del televisore. Nella sua "lettera sul cinema" di qualche anno fa disse: "non siamo contro il cinema, ma contro il cattivo uso del cinema"». Già. In dieci anni, dice il regista Majid Gharizadeh, «Il nostro cinema è cambiato al novantanove per cento. Oggi si occupa di problemi umani e sociali, di gente comune con affanni quotidiani. Prima, sotto il governo dello Scià, si giravano commedie, film di sesso commerciale, qualche opera intellettuale ignorata dal grande pubblico. Adesso il nostro primo scopo è comunicare con la gente, insegnare, educare». / film visti a Sanremo sono melodrammi ambientati in un'esemplare borghesia urbana benestante, con eroi professionisti (medico, cineasta, insegnante, scrittore) abitanti in appartamenti solidi, forniti di automobili, televisori, segreterie telefoniche, bei vestiti, proiettori per diapositive, dilemmi di coscienza e complicazioni psicologiche. In Shayad vaghte digar (Magari un'altra volta) di Bahram Beizai ci sono pure i gemelli, anzi le gemelle, così inevitabili nel cinema contemporaneo: modello co¬ st smopolita, misteri dell'identità sdoppiata e perduta, l'abbandono nell'infanzia e la mancanza d'affetto come origine d'ogni squilibrio nervoso, il mondo della TV, grattacieli, Toyota, moviole, blow-up, e iproblemi dell'inquinamento nella metropoli Teheran; «dobbiamo migliorare il nostro sistema di trasporti pubblici, ogni veicolo privato genera intossicazione, nel futuro industriale la gente dovrà portare la maschera per salvarsi la vita...». In Parandeh Kouchak-e é khoshbakhti (L'uccellino della felicità) di Pouran Darakh-Shandeh, la protagonista è una giovane insegnante separata dal marito e presa da una struggente nostalgia di maternità, che legge il giornale, guida l'automobile, porta gli occhiali, ha fatto studi di psicologia e foniatrìa: lavora in una scuola per ragazzine ritardale o sordomute, contro i pregiudizi rinunciatari d'altre arretrate insegnanti è decisa a recuperare una bambina disturbata, e ci riesce. In Sarzamin e arezouha (La terra delle promesse) di Majid Gharizadeh, si ripete la polemica sull'automobile f«una macchina per ciascuno rende il traffico impossibile»), ma attraverso la storia di tre fratelli s'affronta un tema centrale per la società iraniana, quello dell'emigrazione negli Stati Uniti, che viene fortemente criticata e sconsigliata: «L'America non è l'Utopia, c'è freddo e solitudine e fatica». In Tasvir akhar (L'ultima immagine) di Mehdi Sabbaghzadeh, il dramma d'un elegante chirurgo ossessionato dal sentimento di colpa per essere stato indirettamente responsabile della morte d'una donna serve a condannare l'avidità di denaro e il pigro egoismo del medico a contrasto con l'altruismo eroico di altri dottori, serve a condannare le migrazioni interne dalla provincia alla capitale. Il finale è sempre ottimista. Sempre vengono sostenuti al massimo i valori della famiglia, soprattutto il dovere dei figli di non abbandonare nella soliludi?ie i genitori vecchi. Sempre risultano propagandisticamente impeccabili, bene organizzati, ben gestiti, scuole, ospedali, telefoni, uffici pubblici (l'eventuale disfunzione serve nel caso alla critica della burocrazia/. Sempre appaiono figure secondarie molto positive, bravi pompieri, bravi dottori, bravi impiegati cornunali, bravi maestri, buoni e onesti ragazzetti che s'affannano a restituire al proprietario il perduto borsello pieno di soldi. Se ambientazioni e drammi del sentimento ricordano i film con Mario Merola o le telenovelas, se gli intenti didattici sono quelli d'ogni cinema di regime, le opere dell'Iran presentate alla Mostra del film d'autore sembrano scelte per l'occasione, per l'esposizione all'estero: ma nella Repubblica islamica si produce anche altro. Tra quelli realizzati nel 1988, ci sono film con protagonisti poveri, contadini, pastori, pescatori, allevatori; ci sono film direttamente politici o propagandistici su oscure trame di «membri del vecchio regime legati agli americani», film bellicopatriottici sulla guerra con l'Iraq, film in costume che riscrivono la storia del Paese, storie avventurose di complotti terroristici che insidiano la terra degli Ayatollah, storie della Rivoluzione islamica, storie sul traffico di quella droga che potenti nemici vogliono sempre più diffondere tra gli iraniani per ottunderne la volontà, minarne l'energia rivoluzio- naria e l'integrità religiosa. Ci sono ad esempio vicende cosi sintetizzate: «Ebrahim è un soldato kamikaze, un curdo musulmano che insieme con un agente del Sepali scopre indizi di un imminente bombardamento chimico pianificato dall'Iraq. Infiltratosi tra le truppe irachene...». Oppure: «Biografia dell'Ayatollah Seyyed Morteza Hosseini Nojumi, in cui l'Ayatollah recita la parte di se stesso». O ancora: «Yusof, immigrato, lavora in un ristorante in un Paese occidentale. E' profondamente ferito dalle discriminazioni e dalla mancanza di rispetto, ma non ha abbastanza forza di volontà per tornare in patria. A poco a poco viene travolto e distrutto dalla tecnologia occidentale e dal traffico». «Si producono adesso 5060 film l'anno — dice Shoja Noori —. I nostri registi sono 110, alcuni hanno frequentato scuole di cinema in America o in Italia, e non sono stipendiati dallo Stato. La produzione di film è in parte statale, in parte parastatale e in parte privata, mentre l'importazione nel Paese di film stranieri è prerogativa esclusiva dello Stato: film americani se ne importano pochissimi, posso citare il documentario 1982 di Godfrey Reggio Koyaannisqatsi; tra gli autori italiani, sono famosi da noi i Taviani e Francesco Rosi». Alla Rivoluzione islainica del 1979 segui una sospensione nella produzione di film, e alcuni dei registi più noti in Europa emigrarono all'estero per sottrarsi al regime. Nel 1983, il ministero della Cultura e della Guida Islamica elaborò un piano triennale di «protezione, orientamento e controllo delle attività cinematografiche»; poi il sottosegretario per gli affari del cinema stabilì una classificazione che divideva i film in quattro categorie, privilegiando «i più impegnati e di qualità» con prezzo più allo del biglietto, distribuzione in un maggior numero dei cinema nazionali meglio attrezzati, prolungamento delle proiezioni nei settanta cinema di Teheran, pubblicità televisiva. Adesso, secondo le informazioni ufficiali, la politica autarchico-protezionista ha fatto si che i film iraniani rappresentino il sessantasei per cento del mercato, anche se in Iran come dovunque gli spettatori del cinema sono diminuiti, da 78 a 74 milioni l'anno. Nel regime religioso, la religione musulmana, naturalmente per ragioni storico-culturali, è quasi invisibile nei film presentati a Sanremo: un unico ritratto di Khomeini alla parete di un ospedale, non più invadente d'un ritratto di Cossiga negli uffici pubblici; una vecchia che sospira «tutto quello che accade è volontà di Allah», un vecchio che mangia un boccon di pane e ringrazia («grazie, Allah»), una bambina che riuscendo finalmente a scrivere traccia come prime parole quelle canoniche, «In nome di Allah misericordioso e pietoso». Poco d'altro: come in Dallas, mai nessuno che preghi, che parli con un sacerdote, che legga i libri sacri, che sembri avere problemi spirituali o religiosi. «Non è necessario», dice il direttore della Farabi Cinema Foundation, «per noi tutto è emanazione divina». Dieci anni dopo la Rivoluzione degli Ayatollah, l'unico segnale forte dell'egemonia islamica resta, in questi film visti a Sanremo, il modo di vestire delle donne: gli aderenti fuseaux che nascondono le gambe, la maghnae che copre i capelli considerati sessualmente rilevanti quanto il petto o il sedere, la compostezza monacale nell'assenza dei gesti dell'amore. Lietta Tornabuoni Sussan Taslimi in una scena del film iraniano «Magari un'altra volta» di Bahram Beizai Khomeini, visto da Levine (Copyright N.Y. Review of Books. ripa e per l'Italia -La Stampa-)