Ma Gramsci sapeva

Ma Gramsci sapeva SCIASCIA RISPONDE A CANFORA Ma Gramsci sapeva Luciano Canfora trova deludente che io, senza aver visto, abbia parlato della collocazione dei documenti d'archivio di cui lui si occupa nell'appendice al saggio Togliatti e i dilemmi della politica: ma io non ho fatto altro che riportare l'indicazione che dà a pagina 130 del suo libro; indicazione che si conclude esattamente così: Fascicolo 'Partito Comunista- (57/3). Ho omesso, nell'articolo cui Canfora risponde, il 57/3; ma non è questa omissione che mi rimprovera. Dice: «Non esiste un fascicolo Partito Comunista", poiché «dire fascicolo Partito Comunista è come fare generico riferimento ad alcuni metri di scaffali». Lo credo senz'altro: ma la parola fascicolo non è venuta fuori per mia «bizzarria»: sta lì, alla pagina 130 del suo libro; e io mi sono riferito alla sua indicazione soltanto per avanzare l'ipotesi che Spriano, trovando le lettere in quella collocazione, legittimamente non se ne fosse meravigliato. Scomparse le lettere originali (ma chi sa che almeno quella diretta a Gramsci una volta o l'altra non ricompaia), che le copie fotografiche siano finite nel carteggio dell'Ovra, a me pare del tutto ovvio. E non ho la minima remora a dichiararmi, in fatto di archivi, di pochissima esperienza; ma se Spriano, che ne aveva tanta, non si è meravigliato di trovare lì quelle lettere, una ragione certo se la è fatta. E insomma: trovare le copie fotografiche delle lettere tra le carte dell'Ovra non mi pare un fatto sorprendente; né mi pare conduca al corollario che le lettere siano un falso: fab hneato appunto dall'Ovra. Ma altro è il punto della questione: e direi che princi palmento risiede nelle lettere di Gramsci e non nelle copie delle lettere firmate Ruggero che Spriano ha trovato e Canfora ha ritrovato, che Spriano ha considerato «vere» e Canfora considera «false». E in effetti: se dal momento in cui il giudice istruttore gli consegna la lettera «firmata Ruggero» Gramsci perde o ha già perduto la sua capacità di intelligenza, di discernimento di giudizio o se ancora pienamente la possiede. Posta senza parole mezze o velate, esplicitamente, brutalmente magari, la questione sta in ciò: Gramsci, secondo Canfora, si è trovato tra le mani un falso grossolano, infarcito di errori, di grafia inattendibile, riconoscibile come falso almeno con la stessa facilità con cui Canfora sessantanni dopo lo riconosce, e non solo non se ne è accorto, ma da lì è partito per costruire negli anni, senza alcun riscontro oggettivo, tutto un castello di sospetto e di diffidenza. E insomma, di fatto: per costruire soggettivamente, maniacalmente, il dramma del proprio isolamento, della propria solitudine. Falsa la lettera, di altra «falsità», di falso vedere, di'falso sospettare, di dolorosa monomania, la condizione di Gramsci in carcere rispetto al Partito, ai compagni. Io credo invece nell'esatto contrario, che Gramsci non si è fatto ingannare, non si è ingannato; e che prima e me glio di ogni altro sarebbe stato in grado di riconoscere la falsità della lettera, se falsa fosse stata. La lettera, e bene ribadire, gli è stata consegnata in originale: ha avuto tutto il tempo che ci voleva per stu diarsela come Canfora se la è studiata, ci ha pensato su fino a sentirsene «ossessionato» (e in questa parola mi pare involga la lucida analisi introspettiva da cui esce convinto della «verità» della lettera). E la conclusione cui arriva cinque anni dopo, nella lettera a Tania del 27 febbraio 1933, è che una «serie di fatti che possono simbolicamente riassumersi nella famosa lettera di cui mi parlò il giudice istruttore a Milano e sulla quale anche recentemente ti intrattenni» gli avevano dato coscienza di essere stato «condannato». «La conclusione, per dirla riassuntivamente, è questa: io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale, cioè da un collegio di uomini determinato, che si potrebbero nominalmente indicare con indirizzo e professione nella vita civile. Ma questo è un errore. Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l'indicazione esterna e materiale, che ha compilato l'atto legale di condanna». Canfora dice: non ci fu tradimento net riguardi di Gramsci. Ma io non ho usato questa parola, né l'userei. Troppo univoca, squadrata e pesante per definire 'quel che di più complesso, di più sottilmente ed efferatamente articolato e sfuggente — persino contraddittorio e in un certo senso metafisico — stava accadendo nel mondo comunista e che non soltanto Gramsci soffriva. Non me ne voglia Canfora: ma quella lettera — nel crescendo in cui Gramsci l'assume «strana», «molto strana», «famosa», «famigerata», «simbolo» di una serie di fatti — io continuo a crederla doppiamente vera. Leonardo Sciascia

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