«Uno Stato palestinese? Prima provate a convivere»

«Uno Stato palestinese? Prima provate a convivere» «Uno Stato palestinese? Prima provate a convivere» (Henry Kissinger analizza l'impasse della pace in Medio Oriente e suggerisce un esperimento di 5 anni) Ecco i brani salienti di un articolo dell'ex segretario di Stato Henry Kissinger sulle prospettive della pace in Medio Oriente. Con la visita a Washington del ministro degli Esteri israeliano Moshe Arens, la diplomazia mediorientale sta tornando ancora una volta alla ribalta. Questo dovrebbe porre nella giusta prospettiva il tanto sbandierato timore che il viaggio in Medio Oriente del ministro degli Esteri sovietico Shevardnadzc abbia tolto una marcia all'America. Perché alla fine non sono i gesti che contano ma la sostanza. L'invocazione di Shcvardnadzc di trite panacee come una conferenza internazionale di pace, il ritomo di Israele ai confini del 1967, uno Stato palestinese, sancisce soltanto lo stallo senza risolverlo. La novità non è il viaggio di Shcvardnadze ma la decisione presa negli ultimi giorni dell'Amministrazione Rcagan: alcune vaghe dichiarazioni fatte da Arafat nel corso di una conferenza stampa hanno di punto in bianco soddisfatto quelle condizioni che da vent'anni impedivano all'America ur. colloquio con L'Organizzazione per la liberazione della Palestina. Infatti l'Amministrazione Rcagan è andata oltre, giustificando la mossa come «un passo verso l'inizio di un negoziato diretto tra le parti". Il partito arabo era chiaramente l'Olp, un tempo e ancora adesso avversato da Israele. Nelle parole del Dipartimento di Stato: «Se si vuole raggiungere un accordo di pace in Medio Oriente, bisogna includere i palestinesi in tutte it. fasi della trattativa». Un risultato evidente dell'iniziativa americana è stato la rinnovata pressione per lo stesso tipo di negoziato che si era dimostrato infruttuoso per sci anni. Le cancellerie della Comunità europea, dell'Unione Sovietica, e in seguito dcll'Olp riecheggiano di richieste per uno Stato palestinese nella West Bank e a Gaza basato sui confini del 1967 con «correzioni minori', da raggiungersi attraverso negoziati diretti tra le parti. Queste parti, per esplicita ammissione di tutti i potenziali partecipanti alla conferenza (anche gli americani lo hanno ammesso, implicitamete), sono Israele e l'Olp. La passione e l'ostinazione di chi sostiene questo schema e inversamente proporzionale alla sua realizzabilità. In questa fase, configurare Arafat come interlocutore di Israele è incompatibile con il concetto di negoziato diretto. E le difficoltà sostanziali sono ingenti. La distanza tra il Giordano c il Mediterraneo è di 40 miglia. In questo territorio sarebbe difficile infilare anche due Stati amici; provarci con due parti che si sono sempre considerate nemiche mortali (e una delle quali mantiene nel suo statuto l'obiettivo di distruggere l'altra) è cosa quasi impossibile da conciliare con i requisiti della Risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza sui confini sicuri e riconosciuti. Lo stallo è irrisolvibile. Non conosco nessun leader israeliano che sia disposto a cedere la città vecchia di Gerusalemme. Non conosco nessun leader arabo disposto ad accettare qualcosa dimeno. Israele rifiu¬ ta i confini del 1967 perche lascerebbero il Paese con un corridoio di soltanto otto miglia tra Tel Aviv e Haifa e uno di circa tre miglia tra Tel Aviv e Gerusalemme. Ma nemmeno l'Olp accetta le frontiere del 1967. La conferenza stampa di Arafat e altre affermazioni basano l'obliquo riconoscimento di Israele sulla Risoluzione 181 del Consiglio di sicurezza dell'Orni che contiene due punti che nessun prevedibile governo israeliano può accettare: il ritorno ai confini del 1947 (un territorio che e un terzo dell'attuale Israele e metà di quello pre-1967); e il rientro di tutti i profughi palestinesi in questo rimasuglio di Stato, con la distruzione della sua identità ebraica. Né Shcvardnadze ne qualsiasi altro statista può vincere questo stallo se non attraverso una pressione su Israele, il che sarebbe l'inizio della castrazione definitiva dello Stato ebraico. Naturalmente, una pressione è proprio ciò che vogliono realmente molti sostenitori di tale schema: sebbene s'illudano se pensano che sarà una cosa facile e che il risultato alla fine sarà compatibile con la sopravvivenza di Israele. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, non è chiaro perché debbano mettersi in una posizione che li obblighi a dissociarsi da un alleato oppure a diventare sempre più isolati, bersaglio delle frustrazioni arabe, della collera dei fonda mcntalisti, dell'alienazione europea c delle frustrazioni so vietiche. Così la decisione cruciale per gli Stati Uniti non è se il segretario di Stato Ja'mcs Baker possa ripercorrere le orme di Shcvardnadze in Medio Oriente, ma definire gli obiettivi di una diplomazia realistica. Questa richiede una risposta a tre domande. 1) Quali territori (ammesso che siano cedibili) Israele potrà abbandonare? 2) Chi sarà a governarli? 3) Quali dispositivi per la sicurezza prevarranno dopo il ritiro di Israele? In quanto alla prima domanda, Israele s'illude se crede che l'America approverà mai, in una conferenza o in colloqui bilaterali diretti, un'occupazione israeliana permanente di tutta la West Bank e Gaza. Per Israele insistere sullo status quo significa aumentare le pressioni della comunità internazionale e rischiare una fatale erosione del sostegno dell'opinione pubblica americana e del Congresso. Israele e l'America, dunque, devono discutere nel corso di colloqui preliminari la consistenza e i limiti della concessione territoriale israeliana. Qualsiasi serio sforzo diplomatico in Medio Oriente deve tuttavia partire da due proposizioni: adesso le condizioni per un accordo finale semplicemente non esistono; non si può chiedere a Israele contemporaneamente di cedere territori e di consentire alla formazione di uno Stato palestinese. Uno Stato palestinese può emergere soltanto dopo che israeliani e palestinesi abbiano imparato a vivere fianco a fianco con dignità. Così un periodo di autogoverno (diciamo di cinque anni) deve precedere i negoziati politici per un accordo finale. Questa, naturalmente, era la formula di Camp David. Ma nell'applicazione Israele ha definito l'autonomia dei palestinesi prefigurata a Camp David in termini così restrittivi da trasformarla in un sotterfugio per continuare l'occupazione. Nonostante ciò, la miglior speranza di Israele per la coesistenza riposa nei leader arabi che vivono nella West Bank: paradossalmente, proprio le persone che guidano la rivolta contro il dominio d'Israele. I melodi dell'occupazione israeliana hanno offeso la dignità della popolazione araba della West Bank. Ma questi sono i palestinesi che hanno scelto di non abbandonare la loro terra e sono vissuti accanto agli israeliani e nell'orbita dell'economia di Israele. Tra tutti i palestinesi sono quelli nella miglior posizione per capire la coesistenza sulla base dell'autogoverno. L'Unione Sovietica agita il possibile riconoscimento di Israele come il poprio contributo al processo di pace. Ma il riconoscimento è l'inizio della diplomazia, non il suo scopo. Il criterio per la partecipazione di Mosca sarà la sua volontà di contribuire a definire condizioni che non soltanto conducano a una conferenza di pace ma portino anche a dei risultati costruttivi. Questo comporta la volontà dei sovietici di chiedere ai loro amici arabi gli stessi sacrifici che l'America deve chiedere a Israele in qualsiasi processo di pace. Henry Kissinger Copyright «Los Angeles Times Syndicate» e per l'Italia «La Slampa»

Persone citate: Arafat, Baker, Henry Kissinger, Moshe Arens