Salvador il voto del terrore di Mimmo Candito

Salvador, iI voto del terrore Tra attentati e minacce oggi alle urne un Paese che ha scordato la speranza Salvador, iI voto del terrore La guerriglia annuncia che non attaccherà seggi e elettori • Ma la percentuale di chi resterà a casa per paura potrebbe essere elevata Soldati contro guerriglieri, una triste guerra tra bambini DAL NOSTRO INVIATO SAN SALVADOR—Anche stanotte José ha dormito nella mia stanza. José è un bravo ragazzo. A 34 anni ha già sei figli e un altro in arrivo; ed è il mio autista. Andiamo in giro per tutto il giorno, rientriamo quando la notte è già scesa, verso le sette della sera, e lui non se la sente di guidare ancora nell'oscurità: abita a Soyapango, sono meno di 30 chilometri da qui ma è già piena zona di guerra, e viaggiarci durante la notte è un suicidio anche quando sul parabrezza la scritta «stampa» fissata con lo scotch dovrebbe garantire qualche speranza di non diventare il bersaglio di un cecchino. O forse, comincia la paura di essere proprio un bersaglio ben trovato. Ma non è tanto il problema della paura; lui mi guarda e dice a bassa voce: *Debbo pensare ai miei figli', e quello che vuole dire è che sa bene come vadano le cose in questo Paese, dove ogni notte la guerra fa 20, o 30, o 50 nuovi morti ammazzati. E sei figli, quasi sette a Dio piacendo, sono una grossa responsabilità. José si è fermato a dormire nell'albergo da quando la guerriglia ha imposto il boicottaggio di ogni forma di trasporto, tre giorni fa, per bloccare le elezioni di oggi, e le strade si sono subito svuotate del traffico mentre il cielo si riempiva di inutili elicotteri con la carlinga dipinta dalle macchie della mimetizzazione e la mitragliera puntata verso terra. Nelle stanze dell'albergo non c'è luce, sotto la porta filtra appena il chiarore delle lampade d'emergenza che il generatore tiene mezze accese nei corridoi. Manca la luce, manca l'acqua, nei negozi cominciano a mancare i fagioli, il rìso, il pane, la frutta. Con José nei giorni scorsi abbiamo fatto un buon rifornimento di viveri e di benzina, ma la gente comune, quella che non ha i dollari portati da fuori, comincia a mostrarsi disperata. I pochi supermarket che ancora possono offrire qualcosa da comprare sono ammorbati dal puzzo della carne che va in putrefazione. La mancanza d'energia elettrica frantuma le abitudini più naturali della vita quotidiana, saltano i frigorìferi, le docce, gli ascensori. Tutto si sfalda sotto gli occhi, diventa subitamente provvisorio. Due volte su tre i giornali non sono stampati, le televisioni restano mute e vuote, le radio locali hanno lunghe pause improvvise quando i generatori si stancano o finisce il loro carburante. Ieri abbiamo fatto nuovamente un lungo giro nelle terre dell'Oriente, dove la guerrìglia controlla quasi interamente le campagne e lascia ai soldati solo le strade. In città si andava come se fosse già la Pasqua, con non più di due o tre auto in tutto l'orizzonte e i semafori ciechi che non disturbavano nessuno. Svuotati dal sabato e non solo dalla paura anche i marciapiedi, le poche facce che s'incontravano erano quelle dei soldati. Che sono facce da bambino. Qui ti arruolano a 14 anni. Ti vengono a prendere mentre sei per strada o stai nei campi a zappare, ti danno un paio di calci nel sedere per farti stare zitto e poi ti sbattono in caserma. Un giorno, qualche tempo fa, ero nel comando della prima brigata per convincere il colonnello a darmi un salvacondotto per le zone di guerra, mi sono ritrovato faccia a faccia con un gruppo di queste reclute. Non avrei dovuto, non avrei potuto, ma il tenente che comandava il picchetto di guardia si era dimenticato di me e avevo potuto assistere all'addestramento del plotone, standomene più o meno nascosto dietro una colonna squadrata. Erano una quarantina di ragazzetti, piccoli, secchi, tirati, con le facce stravolte dal sudore e il peso degli zaini che gli strappava il fiato, n sergente li faceva correre avanti e indietro in formazione serrata, poi gli ordinava di infilzare con la baionetta i sacchi che avevano la forma di un uomo. Erano le tre del pomeriggio, nel pieno della calura i soldati si muovevano come marionette stupide. Sembrava un gioco disperato ma ancora infantile, una corsa appena ottusa Ma 11 grido che il sergente gli imponeva mentre la baionetta andava dentro era un urlo agghiacciante, che torceva lo stomaco. •Asesino, terrorista, aqui tu muerte» gridavano le marionette in coro, e davano il colpo nella pancia del sacco. Non sembravano più i bambini che giocano nell'uniforme da grande. I piccoli indiani insaccati nelle loro divise da combattimento guardavano ora i marciapiedi vuoti della città. mentre José mi portava a oriente, e sfilavano lungo le case, tenendosi quasi attaccati ai muri, col mitra puntato verso le finestre chiuse. Oppure se ne stavano nascosti dietro un albero, e si vedeva la punta dell'arma che spuntava nell'aria immobile. Le stesse lunghe colonne silenziose le abbiamo poi incrociate dentro la carretera del Norte, la strada che va a Chalatenango, uno di quei posti dove la guerriglia comanda. I soldati andavano in silenzio, in colonna, da una parte e dall'altra della strada, col mitra al braccio e lo zaino sulle spalle. Le loro facce da bambini non incutevano affatto paura. Si tengono a una decina di metri l'uno dall'altro, zitti, con il rumore soltanto degli scarponi che battono la terra e l'ultimo della pattuglia che cammina all'indietro, come un gambero impazzito, per proteggere se stesso e i suoi compagni. Quando ne abbiamo incrociato qualche plotone che riposava dal pattugliamento, sotto le foglie grandi di un vecchio albero, avevano poco da dirmi oltre la paura della quale non parlavano ma che gli si leggeva dentro. Accettavano la sigaretta che gli davo per attaccare discorso, poi a monosillabi rispondevano si o no, e nient'altro. Sono soltanto del ragazzi, la guerra è un gioco troppo più grande di loro e che qualcuno gli sta giocando addosso. Ma non hanno ancora l'età, non lo sanno, perciò continuano a marciare, sperando di non morire per il tiro di un guerrigliero nascosto da qualche parte in mezzo all'erba dei campi. Un tempo qui l'esercito aveva appena 17 mila uomini. Poi sono arrivati gli americani e il loro milione e mezzo di dollari ogni giorno, e ora l'esercito ha 57 mila soldati, 72 elicotteri, 63 aerei da combattimento; e soprattutto una generazione di giovani colonnelli che ama la mano forte. Negli ùltimi quattro anni, Washington gli aveva imposto di adeguarsi alla strategia del «conflitto di bassa intensità» (vuol dire uno scontro contenuto, di profilo basso, che dimostri sul campo l'impossibilità della guerriglia di vincere). I nuovi colonnelli non ne vogliono più sapere, e se stasera l'Arena avrà vinto e il comandante dell'aviazione generale Juan Rafael Bustino diventerà nuovo ministro della Difesa, allora la guerra qui si avviterà subito su se stessa e i morti di ogni giorno saranno molti di più. Ma ancora con la faccia da bambini gli uni e gli altri. I guerriglieri infatti sono anche loro soltanto dei ragazzi. E alla fine, questo Salvador che puzza di morte sembra un disperato mondo di adolescenti che non hanno nemmeno il diritto di crescere. Gli resta solo il dovere di ammazzarsi. La gente, con uguale indifferenza, chiama muchachos questi e quelli. Perché anche questi hanno le stesse facce tirate, piccoli come gli altri, magri, secchi, con negli occhi forse più il segno della fame e della disperazione. La sola differenza è che non hanno la divisa ma i jeans e la maglietta, però ogni volta che con José ci fermavamo a chiacchierare con i contadini incontrati lungo la strada, e tiravamo fuori la sigaretta, e cominciavano i racconti, ogni volta facevamo fatica a capire di quali muchachos stessero parlando. Se i soldati o i guerriglieri. I muchachos, si capiva, gli uni e gli altri, gli portano comunque solo danni. Nel nostro lungo giro di ieri la guerra non l'abbiamo incontrata direttamente. Ne abbiamo visto solo le facce e l'ombra. I soldati ci lasciavano passare ai posti di blocco, i guerriglieri se ne stavano acquattati da qualche parte nella campagna attorno a noi, in attesa della notte, quando le pattuglie dei soldati rientrano negli accampamenti e l'Fmln ritorna padrone del mondo. Al rientro, quando il tramonto era già dietro le montagne, siamo passati da Aguilares, deviando per un largo stradone di campagna e arrivando fino a Peynal. Inseguivamo la segnalazione di un attacco dellTmln, ma abbiamo trovato la piazzetta del paese tranquilla e 1 soldati che facevano il loro pattugliamento di routine tra cani pulciosi e bimbetti pieni di polvere. Il silenzio immobile rendeva la guerra lontano un mondo. Peynal sono quattro case grigie e la piccola chiesa di S. José. Che era chiusa. Sono andato a prenderne le chiavi da un custode, e sono entrato a vederla. E' grande poco più di una stanza, con una Madonna che nella penombra sembrava una bambola di pezza e il confessionale fatto da una cassetta di legno e un velo bianco. Un fortissimo profumo di fiori ammorbava l'aria, come nelle cappelle chiuse dei cimiteri. Sotto l'altare c'erano tre lunghe pietre bianche e il nome dei sepolti. Sono padre Rutilio Grande e i suoi due catechisti, ammazzati dodici anni fa proprio in questi giorni. Da quando gli squadroni della morte lo hanno fatto fuori, la chiesetta di S. José è aperta solo la domenica mattina. Ma per l'anniversario dell'altro ieri qualche mano pietosa aveva portato sulle tombe due mazzi di fiori e aveva scritto una parola che il buio rendeva ormai illeggibile. Paz, pace. Mimmo Candito

Persone citate: Juan Rafael Bustino, Soldati

Luoghi citati: San Salvador, Washington