L'affare Gramsci: non ci fu tradimento

L'affare Gramsci: non ci fu tradimento LEONARDO SCIASCIA E «QUELLA STRANA LETTERA DA MOSCA»: RISPONDE LUCIANO CANFORA L'affare Gramsci: non ci fu tradimento Ci sono molte ragioni per esser grati a Leonardo Sciascia quando si lascia andare alla riflessione sulle vicende politiche di questo secolo, ma soprattutto una: il fatto cioè che egli si spinga in genere al centro della questione, e con estrema serietà pur nella levitas dei richiami letterari tratti dagli autori che gli sono cari e consueti. E' l'impressione che ho ricavato dall'avvio del suo saggio, apparso venerdì scorso su La Stampa, che prende le mosse dal mio libro su' Togliatti e i dilemmi della politica: libro in cui — scrive — «i dilemmi son quelli tra politica e politica, non tra politica e morale". Formula che a me piace in quanto espressione schietta dì quel declassamento della politica a terreno distinto (e meno «puro») dalla morale, che è alla radice di tanto pensiero «impolitico» o «anti-politico»: pensiero cui si deve, per cosi dire, la consegna (almeno sul piano del «senso comune») della politica al regno della immoralità, il misconoscimento cioè della moralità profonda della politica. Moralità della politica onde Machiavelli è, a parer mio, più morale dei suoi critici gesuitici e controriformisti: moralità della politica che i moralisti «puri» non intenderanno mal Ma ben presto il saggio di Sciascia abbandona il terre¬ no arioso della riflessione sui distinti» e si inoltra nella questione più puntuale ma non meno dilemmatica delle lettere di Grieco». Che a lui paiono autentiche per una prevalente ragione (prevalente — così a lui pare — sui pur molteplici indizi suggestivi in direzione opposta, che perciò non discute): prevalente ragione che si riduce, nella sintesi che lo stesso Sciascia ne dà, a questo: "Firmare Ruggero lettere che erano nella loro autenticità firmate Garlandi sarebbe stato per l'Ovra un controproducente e sciocco eccesso di zelc. Asserito ciò, così egli prosegue: "Tutti gli altri elementi addotti per dimostrare la falsità delle lettere si possono confutare e dissolvere: Ora, io so bene che un'indagine minuziosa risulta alla lunga stucchevole e che perciò un procedere per così dire «impaziente» può anche riuscire, in certo senso, comprensibile. C'è però anche da dire che non era obbligatorio avventurarsi nella discussione: ma una volta entrati, bisogna armarsi di pazienza. E allora. L'adozione della firma Ruggero ha un fine ben chiaro: quello di rendere inequivocabile l'attribuzione delle lettere all'imputato latitante Ruggero Grieco, coimputato, con Gran.sci e gli altri, nello stesso processo. La firma Garlandi, congetturalmente riconducibile a Grieco, non aveva, com'è ovvio, valore probante. Non dimentichiamo che giudici, poliziotti, ispettori ecc. non erano, nel febbraio '28, rispetto alle persone in questione, nella condizione di noi studiosi che possiamo, alla bisogna, consultare la Storia di Spriano o lo schedario «pseudonimi» dell'archivio Gramsci, e tranquillamente assumiamo che Garlandi è Grieco (e che anche Antonio, ovvero Bracco, ovvero Oldenigo — pur citare solo alcuni dei suoi vari pseudonimi — è, all'occorrenza, Grieco). Talvolta la polizia lo sa, talaltro lo sospetta. C'è all'Archivio Centrale dello Stato un documento, nella busta K/1B della Direzione Generale di Pubblica sicurezza, in cui il traditore Jonna fornisce all'ispettore generale dell'Ovra un prontuario dì questi pseudonimi, e su alcuni è incerto. E nella cartella Grieco del casellario Politico Centrale c'è un altro documento, di molti mesi successivo alle famigerate lettere, in cui la medesima Direzione Generale afferma con nettezza: ora sappiano che Garlandi è Grieco! C'è però un aspetto del saggio di Sciascia che un po' mi delude. Come fa a parlare di documenti d'archivio e della loro collocazione senza averli veduti? Così accade che egli localizzi i documenti in questione con la seguente bizzarra espressione: "Direzione Generale di Pubblica sicurezza, D.i isione Affari Generali e Riservati, fascicolo Partito Comunista'. Non esiste un «fascicolo Partito Comunista». Esiste la categoria KV1B (essendo K/1A riservata agli anarchici), categoria che a sua volta comprende numerosissime buste (cartelle di fibra) ciascuna contenente fascicoli e sottofascicoli molteplici; e per ciascun anno v'è dovizia di codeste buste, per ciascuna delle categorie pertinenti al K/1B. Si che. insomma, dire -fascicolo Partito Comunista-è come fare generico riferimento ad alcuni metri di scaffali. Chi poi apra quelle buste, troverà che alcune sono, anno per anno, dedicate alle singole città capoluogo di provincia, altre alla voce -agenti comunisti", altre ad -agenti comunisti stranieri", altre a -Corrispondenza" e così via; altre ancora — è il caso del fascicolo 57/3 della busta K/1B 196 (purtroppo mai denotata come tale da Spriano) — contengono esclusivamente la corrispondenza, in partenza e in arrivo, dell'ispettorato Ovra di Milano (il solo esistente nel febbraio 1928), tutta consacrata alla penetrazione provocatoria nei confronti del partito comunista. Ed è appunto questo il contesto documentario in cui le fotografie sono finite (a proposito: non capisco proprio perché Sciascia dica che fotografare delle lettere -presupponeva una attrezzatura di cui né le carceri né gli uffici giudiziari disponevano-: è infatti per l'appunto la polizia politica che fa largo uso di tali attrezzature). Dire che quelle fotografie "dovevano istituzionalmente finire tra le carte dell'Ovrasignifica invero non aver chiare le funzioni d: questo organismo. Non voglio frastornare Sciascia con le pur necessarie distinzioni tra pubblica sicurezza, polizia politica e Ovra. Aggiungerò invece un dettaglio non superfluo a riguardo della falsificazione delle lettere, n supporto tecnico della Scuola superiore di polizia veniva messo a disposizione della Politica e dell'Ovra, e tra i virtuosi della Scuola di polizia vi era anche l'allora celebre (ora dimenticato) Umberto Ellero, autore del manuale intitolato Metodo facile per riconoscere le scritture falsificate (Torino, Paravia) nonché dei Saggi pseudografici. Nella busta nr.*7 della Polizia politica (categoria K/1B per materie) del 1937, il questore di Torino, Mormino, chiede a Di Stefano (braccio destro di Bocchini) come lavorare sulle grafie di certe lettere e Di Stefano gli manda il libro di Ellero. Pochi anni prima (l'I 1 ottobre 1933) Di Stefano stesso comunica alla Direzione Affari generali e riservati che -il giorno 2 corrente veniva fermata una lettera proveniente da Firenze, diretta a Mr. Attilio Tommasi, rue de Charonne 82, Paris XI, dal contenulo familiare. Il sensibile spazio esistente tra le righe fece sorgere il sospetto che la lettera contenesse delle scritture simpatiche, ma l'esame della lampada di quarzo dava esito negativo. Senonché, persistendo il dubbio della scrittura invisibile, la lettera fu sottoposta alla azione del ferro cianuri 'iiluito con ammoniaca ed apparve lo scritto che si alliga in copia. Allo scopo, così seguita Di Stefano, di non far sorgere sospet¬ ti, la predetta Questura ha ritenuto opportuno far rifare la lettera e la scrittura in simpatico, dandole poscia corso-. E qui mi fermo. Anche perché so bene quanto sia avvilente rovistare in questa Italia orrenda delle questure, dei fiduciari, degli ispettori, ma anche degli spontanei delatori che scrivono al duce o al postultimo questore ciò che hanno visto in un bar o origliato in un treno; quell'Italia orrenda, contro la quale e per mutar la quale i Gramsci, i Togliatti, i Terracini, i Grieco scelsero di vivere da militanti e da perseguitati, rinunciando sin dal principio al prestigio e ai successi che la loro levatura intellettuale avrebbe certo comportato (se solo avessero voluto «adattarsi- o, come tanti altri, di tanto in tanto prestare qualche giuramento). Fu quella la loro morale. Onde davvero spiace che uno Sciascia abbia scelto di lasciar intendere senza neanche apertamente dirlo (se non nell'ultimo rigo del suo scritto) che proprio da questi uomini Gramsci sarebbe stato consapevolmente tradito. Non so se gli abbia fatto velo il parallelo bislacco con il caso Moro. Certo, tanti anni dopo, si può non sapere o non aver pazienza o voglia di sapere; e allora è meglio scrivere un bel racconto. Luciano Canfora Antonio Gramsci

Luoghi citati: Firenze, Italia, Milano, Mosca, Paravia, Torino