Gramsci e quella strana lettera da Mosca di Renato Guttuso

Gramsci e quella strana lettera da Mosca SCIASCIA: <E' AUTENTICA LA MISSIVA CHE IL LEADER IN CARCERE RICEVETTE DA RUGGERO GRlECO» Gramsci e quella strana lettera da Mosca In un libro, Luciano Canfora tenta di dimostrare che fu scritta dall'Oro - Ma non lo provano né gli errori di ortografìa, né l'inesatto nome di «Troski», né la calligrafìa Anzi, appare inverosimile che la polizia fascista al nome convenzionale «Garlandi» sostituisse il vero nome «Ruggero», destando i sospetti del lettore - Lo stesso capo comunista considerò quella lettera autentica: «Il giudice mi fece osservare che poteva essere catastrofica» - «Si può commettere un atto criminale volendo fare del bene» Molti anni fa, in una memorabile intervista, André Malraux diceva che gli intendimenti di Stalin erano «statistici» e li riassumeva in questa formula: «Se io elimino un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un tale che ha conosciuto un fascista, nel mondo non ci sarà più il fascismo». Dal primo all'ultimo, e uno appresso all'altro, l'eliminazione di tutti gli anelli della catena. Ma quel che oggi sappiamo di Stalin, credo ci autorizzi a mutare quella formula in quest'altra: «Se io elimino un cale che ha conosciuto un tale che'ha conosciuto'un tale che ha conosciuto un tale che è di diversa opinione della mia, nel mondo non ci sarà più gente che avrà opinione in contrasto con la mia». E dico «opinione» perché non sono nulla di più, che si tratti della chiesa cattolica o del comunismo stalinista; facendo, come si suol dire, tesoro della lezione di Montaigne, che dell'inquisizione cattolica ebbe a dire che «dopotutto, significa dare un bel peso alle proprie opinioni se per esse si fa cuocere vivo un uomo». E con quel che ora sappiamo di Stalin (e con quel che di giorno in giorno andiamo apprendendo) non pare possa suscitare risentimento la constatozionc che chi nell'orbita del comunismo stalinista si è attivamente mosso, e con ruolo primario, sopravvivendo a Stalin e facendone elogio al di là delle convenienze funebri, quegli intendimenti «statistici» finisse sostanzialmente col condividerli. E senz'altro riconosciamo che un tal giudizio 'attiene alla morale più che alla politica; ma ancora rifacendosi a Malraux — il Malraux de L'espoir — possiamo ben dire «he non si può fare politica tenendo conto dei principi morali ma nemmeno la si può fare non tenendone conto. Aporia in cui ogni vero e grande uomo politico dovrebbe dibattersi, ma in cui Stalin e gli stalinisti per nulla si dibattevano. Questa ritlessione — generica e scontata quanto si vuole — mi viene dalla lettura del saggio di Luciano Canfora, ora pubblicato da Laterza, su Togliatti e i dilemmi Mia politica: in cui i dilemmi son quelli tra politica e politica, non tra politica e morale. Opinione rispet tabile quanto ogni altra, per quanto vi si dissenta. Ma quel che del saggio di Canfora qui ed ora mi interessa sono le pagine di appendice sulla «strana lettera» che Gramsci ebbe in carcere nel 1928. Canfora è arrivato alla certezza che si è trattato di un falso costruito dalla polizia fascista, e precisamente da quella branca della polizia la cui sigla — Ovra — pare venga dalla denominazione Opera Vigilanza Repressione Antifascismo: e credo non sia inurile dispiegarne la denominazione per dire che la fotografia della lettera è stata trovata da Spriano, e ora da Canfora, proprio là dove doveva trovarsi: Archivio Centrale dello Stato, Ministero Interno, Direzione Generale P.S., Divisione Affari Generali e Riservati, fascicolo «Partito Comuni- Trovandola dove si aspettava di trovarla (assieme alle fotografie di altre due lettere e a on rapporto di - un dirigente dell'Ovra al capo della polizia); Spriano non se ne era stupito: e questa penso sia la ragione per cui, pubblicando le tre lettere, non ha dato particolare significato al fatto Ovra (il che invece, in una intervista a l'Espresso, Canfora assume come una sorta di reticenza). False o no, le copie fotografiche delle tre lettere dovevano direi istituzionalmente finire tra le carte dell'Ovra: dove, peraltro, non è affiorata alle sagaci ricerche di Canfora la minima traccia della fabbricazione del falso (cosa di cui il dirigente dell'Ovra, scrivendo al capo della polizia, sarebbe stato piuttosto ovvio se ne facesse merito). Le tre lettere erano dirette a Gramsci, Terracini e Scoccimarro. E di quella diretta a Gramsci sappiamo, dalle Lettere dal carcere, quali effetti ebbe; notizie invece svagate e contraddittorie hanno avuto coloro che, su quelle lettere, hanno intervistato gli altri due destinatari. Conviene intanto dire che le lettere — almeno finora — esistono soltanto nelle fotografie dell'Archivio di Stato, sottolineando che si tratta appunto di fotografie, e non — ovviamente — di fotocopie: il che porta a facilmente immaginare un più complicato itinerario delle lettere originali. Fotografarle presupponeva un'at trezzatura di cui né le carceri né gli uffici giudiziari disponevano: lavoro, insomma, da uffici «scientifici» delle questure. Il fatto poi che esistano soltanto in fotografie, preclude quello che potrebbe essere l'accertamento quasi risolutivo a favore della falsità o dell'autenticità: il tipo di carta — se fabbricato in Italia o all'estero — su cui erano scritte. Ecco intanto gli elementi su cui Canfora fonda la sua con vinzione del falso: gli errori di ortografia; la «grafia erronea» del nome di Trotski (sempre, in tutte e tre le lettere, «Tro ski») e di altri comunisti ben conosciuti dallo scrivente; «la insensatezza di varie espressio ni e giudizi»; una correzione che invece, nella lettera a Gramsci, «introduce un errore»; la firma Ruggero che immediatamente diceva dell'identità dell'autore, che era Ruggero G ricco. E c'è un altro elemento che Canfora credo ritenga decisivo e a me pare non sia: la scrittura, quella che al tempo in cui andavo alle elementari era, col nome di calligrafia, materia di non lieve importanza (e di re lativo voto). Ed è appunto ricordando l'applicazione di allora, il provare pennini e il loro diverso rendimento, che mi pare non siano probanti le differenze tra le due pagine che Canfora riproduce a fronte: una certamente scritta da Grieco, l'altra della lettera — the presume falsa — a Scoccimarro. Dico non mi pare (poiché'non sono un grafologo) che ci siano differenze tra le due scritture se non di pennini: uno che scrive, come allora dicevamo, «grosso»; e l'altro che scrive «fine» (senza dire che la pagina della lettera a Scoccimarro è mal fotografata). C'è da dire, comunque, che nemmeno un consesso di periti grafologi riuscirebbe a dar responso sicuro sull'autenticità o sulla falsificazione: che si sa, da che esistono grafologi e tribunali, quanto perizie del genere valgano. Per quel che poi riguarda la firma «Ruggero», a Canfora sembra inverosimile che Grieco, in tre lettere indirizzate a compagni in carcere, così maldestramente si scoprisse, se di solito usava firmare «Garlandi». Ma dato per certo che tre lettere scritte da Grieco partirono dall'estero indirizzate a Gramsci, Terracini e Scoccimarro, inverosimile appare il fatto che l'Ovra, falsificandole, le abbia firmate «Ruggero» invece che «Garlandi»: col ri schio che i tre destinatari (o al meno uno di loro), a conoscenza della convenzione per cui Grieco era nella clandestinità «Garlandi», da quella firma veridica muovessero al sospet to che falsa fosse l'intera lettera, tutte e tre le lettere (in un carcere, tra detenuti, direbbe Pitrc, del «medesimo sentire» gli avvertimenti, le comunicazioni, corrono con una rapidità incredibile). Firmare «Ruggero» lettere che erano, nella loro autenticità, firmate «Garlandi», sarebbe stato insomma . per l'Ovra un controproducente e sciocco eccesso di zelo. Tutti gli altri elementi ad¬ dotti per dimostrare la falsità delle lettere, si possono così confutare e dissolvere: che la stessa acribia oggi esercitata da Canfora, a maggior ragione Gramsci avrebbe potuto esercitarla su quella a lui indirizzata e che (fatto da cui anche Spriano a momenti si è distratto) gli era stata consegnata. Su quella lettera Gramsci per anni si è arrovellato; e se, avendola tra le mani e, presumibilmente, più volte tornando a leggerla, non fece caso alla «erronea grafia» dei nomi, la spiegazione più semplice è che ben conoscendo Grieco (avevano anche lavorato assieme) lo ritenesse capace di quegli errori; e anche di quell'errore introdotto come correzione. In quanto alla «insensatezza di varie espressioni e giudizi», davvero possiamo essere sicuri che non suonassero allora più sensatamente di come oggi li leggiamo, che non fossero allusioni o accenni a cose che il destinatario conosceva quanto lo scrivente? C'è peraltro da osservare che generalmente le falsificazioni aspirano ad esser perfette: ed è difficile da immaginare un falso che contenga tante e così evidenti imperfezioni; e specialmente un falso non consumato da un solitario falsificatore, ma da un organismo numeroso ed esperto, che faceva capo a un uomo dell'accortezza e sagacia di un Bocchini. Gramsci quella lettera, do po un primo moto di diffidenza che non arrivò a levarsi in sospetto, la considerò «vera» — e sempre più «vera» negli anni. Poiché al di là della «verità» che possiamo dire stru mentale aveva ima «verità> morale e storica che andava precisandosi nel tempo e di cui anche nell'universo carcerario giungevano notizie e si intravedeva il decorso. Attribuire alla polizia fascista — di cui astrattamente si può apprezzare la capacità di reprimere e di provocare — la fabbricazione del falso, significa in definitiva attribuirle anche una capacità di così tempestiva intuizione psicologica (nei riguardi di Gramsci) e storica (nei riguardi del comunismo internazionale) che ha del prodigioso: capacità che nessuna polizia al mondo, anche nelle sue branche più selezionate e segrete, ha mai avuto. * * Credo sia necessario, per un giudizio più chiaro e immediato, rileggere i passi delle lettere di Gramsci che si riferiscono alla «strana lettera». Ne parla la prima volta in una lettera alla moglie, il 30 aprile 1928: «La mia salute ì abbastanza buona. Ho saputo dalle autorità giudiziarie e carcerarie che sul mio conto sono state pubblicate molte inesattezze: che morivo di fame. ecc. ecc. Ciò mi è molto dispiaciuto, perché credo che in simili questioni non bisogna mai inventare e neanche esagerare... Ma tu sei stata sempre informata da Tania e perciò non hai avuto occasione di turbarti, lo non voglio scrivere fuori, forse me lo concederebbero, ma io non voglio per principio. Ho ricevuto, per esempio, recentemente, una strana lettera firmata Ruggero, che domandava di avere una risposta. Forse la vita carceraria mi avrà fatto diventare più diffidente di quanto la normale saggezza richiederebbe; ma il fatto è che questa lettera, nonostante Usuo francobollo e il timbro postale, mi ha fatto inalberare. Anche in essa si dice che la mia salute deve essere cattiva! o che le notizie che si hanno sono in tal senso...». Era vero che fuori d'Italia, nella stampa antifascista, che Gramsci moriva di fame ed era gravemente ammalato era notizia che circolava: e giustamente Gramsci se ne irritava, quasi vi intravedesse un mette re le mani avanti, un preludio a qualcosa di simile a quel che abbiamo visto accadere ad Al do Moro: che era, secondo suoi amici di ieri, diventato un altro. In quanto al francobollo e al timbro postale, sarebbero stati troppo poco a certificarlo dell'autenticità della lettera, se avesse avuto dei dubbi. Ma non ne dubitava: e perciò la dice «strana» proprio per dirla «strana»: sconsiderata, imprudente, incredibile da parte d Ruggero, che regolamenti carcerari e misure di trartamento nei riguardi dei carcerati politici ben conosceva, e per diretta esperienza. E' lo stesso Grieco, d'altronde, che ne riconosce la «stranezza», quando, alla do manda della moglie: ■•Ma cosa avete scritto in questa lette ra?», risponde: «Ma cosa vuoi che fosse scritto! Delle banalità qualunque. Capisci che abbiamo fatto solo una prova per vedere se loro potevano riceve¬ re lettere da fuori e avere corrispondenza non solo con i parenti». Non è «strano» che persone perfettamente a conoscenza di quel che avveniva in Italia, esperienti o informate di quel che accadeva ai detenuti politici, addestrate alla comunicazione clandestina e praticandola anche nelle carceri, cadessero nell'ingenuità — a dir poco di fare una «prova» di comunicazione diretta e quasi esplicita con Gramsci, Terracini e Scoccimarro, imputati eccellenti nel processo che si stava istruendo per la difesa dello Stato? E si badi — nella domanda della moglie, nella risposta di Grieco — aìl'avete, ali'abbiamo: che inequivocabilmente dice della collegiale redazione delle lettere. Gramsci torna a parlare della «strana» lettera quattro anni dopo, il 5 dicembre 1932: «Ricordi che nel 1928. quando ero nel giudiziario di Milano, ricevetti una lettera di un "amico" che era all'itero. Ricordi che ti parlai di questa lettera molto "strana" e ti riferii che il giudice istruttore, dopo avermela consegnata, aggiunse testualmente: "Onorevole Gramsci lei ha degli amici c/m certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera". Tu stessa mi riferisti un altro giudizio dato su questa stessa lettera, giudizio che culminava nell'aggettivo "criminale". Ebbene, questa lettera era estremamente "affettuosa" verso di me. pareva scritta per la sollecitudine impaziente di "consolarmi", di incoraggiarmi ecc. Eppure sia il giudizio del giudice istruttore che l'altro da te riferito, oggettivamente erano esatti. «Dunque si può commettere un atto criminale volendo fare del bene, dunque quakheduno valendoti fare del bene può invece aver ribadito le tue catene? Pare di sì, a giudizio del giudice istruttore del Tribunale Militare Territoriale di Milano, giudizio che. come ti consta, ha coinciso con quello di un altro che era agli antipodi. E giustamente, perché, leggendomi alcuni brani della lettera, il giudice mi fece osservare che essa poteva essere la parte il resto) ambe immediatamente catastrofica per me e tale non era perché non si voleva infierire, perché si preferiva lasciare correre. Si trattò di un atto scellerato, o di una leggerezza irresponsabile? E'diffìcile dirlo. Può darsi l'uno e l'altro caso insieme: può darsi c/x chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrittre. Ma è inutile rompersi il capo su tali qiiìstionì. Rimane il fatto obiettivo che ha il suo significato». Ma la lettera bisognerebbe rileggerla per intero, e passando poi a quelle del 27 febbraio e del 16 maggio 1933, in cui si vede — dico si vede — che la lettera di Grieco, cadendo «come per acqua cupa cosa gra- ve», muove in Gramsci delle argomentazioni concentriche, di una esattezza che la storia generale del comunismo oggi pienamente conferma. Ma fermandosi al passo riportato, meraviglia che Canfora si meravigli che la lettera non si trovi nell'incartamento del «processone»: Gramsci Io dice che il giudice istruttore era disposto a non farne conto, che non si voleva infierire, che si preferiva lasciar correre. Il che vuol dire che il giudice poteva: e non avrebbe potuto se la lettera fosse stata falsa, fabbricata appunto per meglio incastrare "imputato, per rendere «catastrofica» la sua posizione. Non occorre grande immaginazione per intravedere nel giudice un rapporto non dico di soggezione, ma certamente di rispetto e forse di ammira¬ zione, nei riguardi di Gramsci: non era un rendergli l'onore che legittimamente gli spettava e che meritava il chiamarlo «onorevole»? E invincibilmente ci viene da ricordare che anche il brigatista che fa l'ultima telefonata, per annunciare la morte di Moro, incorre nel lapsus (che da parte sua era un lapsus significativo quanto quello del giudice istruttore) di chiamarlo «onorevole». E non voglio fare un confronto tra le due figure — in sé diversissime e di diverso ruolo nella nostra storia e nella nostra coscienza: ma tra {'affaire Gramsci e {'affaire Moro, nella loro condizione di prigionieri, c'è obiettiva rassomiglianza: in mano ai nemici, e abbandonati dagli amici. E peggio che abbandonati, anzi. Leonardo Sciascia Antonio Gramsci, visto da David Levine (Copyright N.V. Review of Books. ripa e per l'Italia .La 8tampa») Antonio Gramsci in un disegno di Renato Guttuso

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