Si riscopre Ungar un Kafka dimenticato

Si riscopre Ungar un Kafka dimenticato Ebreo di Praga, narratore negli Anni 20 di un mondo livido. Sta per uscire in prima traduzione italiana «I mutilati». Seguiranno altre opere Si riscopre Ungar un Kafka dimenticato MUORE a trentasei anni, il 28 ottobre del 1929, in un ospedale di Praga in seguito ad una crisi di appendicite acuta, scambiata dai medici per uno dei suoi frequenti attacchi di ipocondria. Ebreo cèco di lingua tedesca, nato nel 1S93 a Boskowitz, in Moravia, da una famiglia di industriali della ricca e colta borghesia ebraica, Hermann Ungar appartiene alla grande schiera degli scrittori cèchi di lingua tedesca come Mike, Werfel, Brod, Perutz e, naturalmente, Kafka, del quale sembra una specie di sosia, o di gemello, anche dal punto di vista letterario. Ma Ungar, a differenza di Kafka e degli altri, è inspiegabilmente scomparso dalla scena, inghiottito senza possibilità di ritorno dal dodicennio hitleriano. Lo ha ripescato dall'oblio, un paio d'anni fa, una piccola casa editrice francese, la Ombres, che ha iniziato a ripubblicarne sistematicamente le opere, apparse per la prima volta in Francia da Gallimard. Da noi lo ha riscoperto la Bollati Boringhieri, che si accinge a mandare in libreria, il 18 marzo, il primo romanzo di Ungar, che è anche il suo capolavoro, apparso nel 1923:1 mutilati (Die Verstùmmelten); nella traduzione di Clara Bovero (167 pagine, 20.000 lire). Seguiranno altri due titoli: i racconti intitolati Bambini e assassini (Knaben und Mòrder) apparsi nel 1920 e il romanzo La classe (Die Klasse) uscito nel 1927. Ci sono poi una dozzina di novelle e tre pièces teatrali: la produzione dì Ungar è tutta qui. Scritta nell'arco di un decennio, la sua opera evoca un mondo livido, onirico, chiaramente patologico, una realtà spesso disgustosa e brutale, popolata da personaggi degradati, ripugnanti e descritta con uno stile elementare, disadorno, fatto di frasi brevissime: uno stile laconico, povero di aggettivi, al limite della monotonia ossessiva. Uno stile che possiede tuttavia una forza e una plasticità sorprendenti: la sua brutalità corrisponde chiaramente alla brutalità della realtà descritta. Se non esiste un vero e proprio 'Caso' Ungar, resta tuttavia un mistero da spiegare: l'oblio che si è impadronito della sua opera e del suo stesso nome nei sessanta anni intercorsi dalla sua morte, dopo che critici illustri e autorevoli come Kurt Pinthus (nella famosa antologia dell'Espressionismo da lui curata nel 1924, Menschheitsdàmmerung, lo aveva messo sullo stesso piano di Kafka) e lo stesso Thomas Mann avevano riconosciuto il suo valore e seguito con interesse l'uscita delle sue opere, stampate all'epoca dall'editore Rowohlt. Thomas Mann riconosceva, nell'opera di Ungar, «una sapiente dimestichezza con 11 vizio, la vergogna e la miseria». Alfred Kerr, il crìtico che scoprì Musil, all'apparizione delle sue pièces teatrali, andate in scena poco dopo la morte dello scrittore al Theater am Schiffbauerdamm di Berlino, scrìsse: «Andate a vedere che cosa abbiamo perduto». Hermann Ungar studia filosofia e diritto a Berlino e a Mosca. Si laurea a Praga, dove entra come funzionario in un ministero. Nel 1922 ottiene un posto all'ambasciata cèca di Berlino. Nella capitale incontra Alfred Dòblin e Joseph Roth. Doppiamente traumatizzato dalla guerra, in cui riportò gravi ferite, e dalla rivoluzione d'ottobre. Ungar si avvicina al gruppo di intellettuali rivoluzionari socialo-sionisti nel 1925 e acquista una certa influenza sulle associazioni studentesche ebraiche. Si sposa. Poi nel 1929, non si sa se per ipocondria, disgusto per il suo impiego, volontà di consacrarsi esclusivamente alla letteratura o qualche segreta fascinazione per la deriva, cessa volontariamente di lavorare il 10 ottobre, qualche giorno prima delia nascita del suo secondo figlio. Il 30 settembre lo scrittore aveva annotato nel suo diario: «Ho preso sei mesi di congedo. Nessuno dovrà sapere nulla di me in questo periodo. O sarò riuscito a creare qualcosa di vero, o la farò finita con tutto. Con resistenza forse no, ma con l'arte sicuramente». Fatto sta che, come accade agli eroi delle sue storie in cui ogni evento, ogni gesto acquista il valore terrìbile di un destino inesorabile, spietato quanto inesplicabile, Ungar, diciotto giorni dopo aver dato le sue dimissioni, muore. E anche la morte, che ha un tragico sapore di beffa, potrebbe essere quella di uno dei suoi grotteschi e desolati personaggi. Prendiamo il protagonista dei Mutilati, Franz Polzer. E' una via di mezzo tra Bartleby, lo scrìvano protagonista del racconto di Melville, e Jonathan Noel, il derelitto e paranoico protagonista del Piccione di Sùskind; non mancano, naturalmente, molti tratti in comune con i miseri e alienati impiegati dei romanzi di Kafka, dal Joseph K. del Processo al Gregor Samsa della Metamorfosi. Polzer appartiene a questa famiglia di reietti, di penose e squallide marionette. La storia ricalca il meccanismo classico del romanzo mitteleuropeo: Franz Polzer è un impiegato di banca che, traumatizzato da un'infanzia dolorosa e brutale, tenta di arginare il disordine del mondo, il caos sempre in agguato a minacciare la sua tranquilla esistenza, attraverso una vita rigidamente ordinata e scandita da rituali maniacali e ossessivi. I personaggi di Ungar, come quelli di Hermann Broch (si pensi al primo romanzo della trilogia I sonnambuli;, di Joseph Roth (Il peso falso) o di Heimito von Doderer (Le finestre illuminate), h anno il terrore dell'evento straordinario che sconvolge la monotona e ossessiva regolnrità della loro vita. Questo evento peri oante è incarnato spesso dalla donna e dal sesso, che aprono quel buco, quella breccia fatale attraverso la quale la loro vita apparentemente tranquilla viene sconvolta e risucchiata in un vortice di insensatezza e caos. A volte questo sconvolgimento rappresenta la rottura della crosta della nevrosi, dell'alienazione e dell'inautenticità che immobilizzava le loro esistenze. Allora la rottura traumatica assume il valore positivo di riscatto e ricongiungimento con la realtà e con gli altri, attraverso l'accettazione di se stessi (così avviene nel racconto di Sùskind o nell'altro romanzo di Ungar, La classe); ma altre e più spesse volte il trauma è rovinoso, e lacera in modo irreparabile il fragile e precario tessuto esistenziale dei personaggi, che vengono travolli insieme con il crollo del loro ordinario sistema di vita. E' quel che avviene nei Mutilati. Qui domina una dimensione chiaramente patologica, avvertibile fin dalle prime pagine. Il racconto può dirsi un vero e proprio campionario di paologie, un caso clinico. La sua struttura può essere definita il compiuto sviluppo di un incubo. C'è, nel romanzo di Ungàr, un gusto spiccato per il dettaglio iperrealistico, volgare e laido e c'è un umorismo macabro, grottesco, una comicità non si sa quanto volontaria e consapevole; c'è sessuofobia e sado-masochismo; c'è il conformismo esasperato, maniacale, piccolo-borghese del protagonista cui corrisponde uno stile costituito da una serie di modi di dire, di frasi fatte, di espressioni burocratiche, di metafore stereotipate. E qui emergono alcuni punti di contatto con Kafka: il mondo onirico, la comicità, la linearità dello stile. Non si può stabilire tuttavia un rapporto diretto tra i due. Kafka non faceva parte della cerchia di conoscenze di Hermann Ungar, e questi era sconosciuto all'autore del Processo. Le opere dei due scrittori, apparse pressappoco negli slessi anni, non hanno potuto esercitare alcun diretto effetto recìproco. Kafka e Ungar hanno respirato tuttavia la stessa -aria-: appartenevano allo stesso ambiente, allo stesso mondo culturale, all'atmosfera ^praghese'. Erano antrambi ebrei, antrambi hanno ricevuto un'educazione tedesca, antrambi hanno studiato giurisprudenza. Sia Kafka che Ungar mettono al centro della loro opera gli orrori del quotidiano: ma Kafka sfocia nella parabola, Ungar in un grottesco psicopatologico, in una demonologia al limite della clinica psichiatrica. Ungar insomma psicologizza, laddove Kafka — convinto della fine della psicologia — racconta leggende e parabole. Le azioni dei personaggi di Ungar sono caratterizzate da un forte determinismo psicologico, da un nesso causale che è completamente assente in Kafka, dove forte è la dimensione simbolica, filosofica e speculativa, dove la motivazione di atti ed eventi manca del tutto, corrosa da un inquietante vento metafisico. Lalli Mannarini Hermann Ungar e Franz Kafka fotografati a Praga negli Anni Venti. Vicini per cultura e ambiente, non si frequentaron

Luoghi citati: Berlino, Francia, Mosca, Praga