La vera letteratura parla tutte le lingue

La vera letteratura parla tutte le lingue «Le forme della lontananza»: Gian Luigi Beccaria indaga scrittura e oralità, dialetto e fiaba, romanzo e poesia La vera letteratura parla tutte le lingue LJ ATTRAZIONE esercitata da «Le . forme della lontananza» di Gian Luigi Beccaria deriva in primo luogo dal calore di una ricerca inconclusa, non aliena da qualche pentimento, ma sostanzialmente, fedele a se stessa. Non c'è capitolo di questo libro, nato in dieci anni di assaggi, che non rechi l'impronta di un cammino univoco, del volume finale cui tende Beccaria. In apertura, egli prende le mosse dal «grande stile», una espressione e un concetto che si trovano in Nietzsche, il quale ne afferma peraltro l'improponibilità: «grande stile» è quello che "ti mette in uno stato di estraniamento dalle abitudini linguistiche», che -si distanzia dalla 'stoltezza'del probabile». Ma non sono gli esperimenti dell'avanguardia perenne a interessare Beccaria. Va bene l'impasto linguistico, il nonsenso, i significanti che non portano più significati, la struttura a mosaico, eccetera eccetera. Ma tutte queste cose gli sembrano inadeguate perché indifferenti rispetto alla ricerca di un punto d'arrivo, a una forma chiusa e autosufficiente che garantisca tra l'altro il circuito della comunicazione. Lo tenta un risultato che abbia il sopravvento sulla presunta perfezione dell'abbozzo e dell'incompiuto; una volontà formalizzante che riprenda il dominio sul fluire indistinto di sensazioni e pulsioni, di calligrafie e frammenti. L'autore mette le mani avanti. Non suggerisce un «rappel à l'ordre», e non sta parlando necessariamente di stile alto, il «grande stile» può tradursi in un linguaggio che sta al di sopra o al di sotto del linguaggio della comunicazione. E per evitare equivoci, nell'introduzione al suo libro preferisce parlare alla fine di strutture «forti» della letteratura, di forme appunto — come recita il titolo — della lontananza. Nelle quali si attua una specie di interscambio tra formulazione alta e formula¬ zione bassa, quasi fossero il rovescio della stessa medaglia. Un grande e un piccolo stile complementari, perché mirano entrambi «a celebrare la letteratura come memoria, l'eterna identità, l'atemporalità e la permanenza delle forme, il segno senza ruggine, sfuggito anche all' 'essere nella storia'». Bachtin e Propp lo persuadono per vie diverse che 11 presente appassisce presto anche nella scrittura. Ma quando sottolinea che i suoi autori hanno toccato i -pochi grandi accenti essenziali del destino», Beccaria rivela anche la forte esigenza morale che sta alla base delle sue scelte più convinte. Mi riferisco, per quanto attestato nel libro, a Saba, Pavese e Fenoglio, nei quali Beccaria ravvisa — attraverso una penetrante analisi stilistica — singolari analogie, un'aria di famiglia. Sono gli scrittori che non hanno perso la fiducia nel senso dell'esistenza e della parola. Non è soltanto Saba a riconoscere pari dignità al linguaggio d'uso comune ed a quello illustre ma reso familiare dalla tradizione. Pavese, con tutta la sua voglia di rinsanguare l'italiano, finisce per accettare 11 dialetto (nel passaggio da -Paesi tuoi» a «La luna e ifalò» ) soltanto quando trova autorizzazione nella letteratura. La sua, è la ricerca di una classicità che si può attingere, insieme, dalla scrittura e dall'oralità. Così per Fenoglio, che nonostante ogni apparenza contraria -tende più al lapidario che all'abnorme» e fruisce di un dialetto dove è possibile cogliere gli indizi di un italiano arcaico e raro. C'è poi, nelle -Forme della lontananza», un blocco intermedio dominato da figure come Pascoli, l'alfiere del simbolismo in Italia, consapevole di usare una lingua «che più non si sa»; Covoni, sperimentatore di accumuli «atonali» che sono il riflesso di una inappagata, cangiante sensuosità; Zanzotto, dalla parola scissa tra amniotiche confidenze e Inesorabili mutismi Sono i maestri della perplessità, dai quali lo stesso Beccaria appare contagiato: quando si sforza di sottolineare, ad esempio, nell'eccentrico Zanzotto l'attrazione verso il centro o la tensione tra vita e coscienza... Ma si vedano le pagine bellissime della terza parte, dedicate alla cultura degli «ultimi», di un universo contadino — fiabesco ed oracolare — nel quale Beccaria si cala senza residui, senza sacrificare la commozione alla severità della ricerca scientifica. Egli ci racconta tra l'altro la storia di un canto popolare in onore di Monti e Tognetti: i nomi dei due garibaldini giustiziati a Roma vengono corrotti nell'Alta Langa in «Morta Antonietta», con riferimento alla regina di Francia ghigliottinata a Parigi. i-Morta Antonietta sui ventitré anni — giovinetta ancora doveva già morir...»). Qui non c'è tanto una testimonianza di fede sabauda e antirivoluzionaria, quanto la suggestione, diffusa nella tradizione popolare, della giovane donna innocente che affronta con coraggio la morte. Qui, a vincere, è la suprema indifferenza per le ragioni della cultura ufficiale e della Storia. Viene in mente Sklovsldj, quando afferma che il colore dell'arte «non ha mai riflesso quello della bandiera che sventola sulla fortezza della città». Lorenzo Mondo Gian Luigi Beccaria, «Le forme della lontananza», Garzanti, 360 pagine, 32.000 Beppe Fenoglio lire.

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