II profeta italiano d'Israele di Lorenzo Del Boca

II profeta italiano d'Israele INTERVISTA CON GAIO SCILONI, UN PONTE TRA DUE CULTURE II profeta italiano d'Israele Fiorentino, emigrato ventenne in Palestina, ha fatto il pecoraio e l'agronomo prima di diventare traduttore - Ha reso in ebraico Pratolini e Italo Calvino, Svevo, Machiavelli e Pico della Mirandola - E ha tradotto in italiano Grossman: «Vedi alla voce: amore» e «Il vento giallo» - Suo figlio, soldato di leva, ha salvato un militante dell'Olp - «Non mi fido di Arafat, ma devo parlargli» DAL NOSTRO INVIATO TEL AVIV — Sono due le cose che racconta con compiacimento: aver fatto amare Italo Calvino agli israeliani e aver contribuito al successo del giornalista di Gerusalemme David Qrosmann traducendo dall'ebraico all'italiano Vedi alla voce: amore e II vento giallo. Gaio Sciloni, come raramente accade, è in grado di lavorare indifferentemente su due lingue: ha sessantanni spesi ad accumulare ricordi ed esperienze, porta la barba che gli scende sulla camicia come se fosse una cravatta, vive a Rishon Lezion, prima cintura di Tel Aviv, ma è nato a Firenze. Non si deve dire che la sua storia è un romanzo. Banale: roba da attricette o da avventurieri perdigiorno. Eppure, se fruga nel suo passato, ne esce un caleidoscopio di emozioni tanto ricche da sembrarare persino esagerate. «La mia era una famiglia di tradizioni ebraiche radicate. Erano tutti molto religiosi. Lo zio era filologo dell'Accademia Superiore e bibliotecario per gli incunaboli ebraici del Papa. In casa si parlavano due lingue: la mamma usava più spesso l'ebraico e il papà più spesso l'italiano. Ma tutti sapevamo che la nostra strada ci doveva portare in Israele». Un ricordo: «Avevo 9 anni e frequentavo la scuola al "Michelangelo". La maestra chiese di dipingere una bandiera. La maggior parte usò i colori italiani: verde, bianco, rosso; ma io preferii il bianco e il celeste. "Che bandiera è mai questa?" "Israele!" "Ma Israele non c'è..". "Ci sarà..."». Un richiamo o un'intuizione? «ho sapevamo tutti. Eravamo certi che ce ne saremmo andati alla prima occasione. Non per disamore dell'Italia. Quello no. A Firenze c'era il ghetto degli ebrei, ma erano loro ad avere le chiavi dei cancelli: aprivano e chiudevano quando gli pareva. Il fatto è che abbiamo continuato a essere soltanto una parte d'Italia: non siamo mai stati assimilati e non potevamo accontentarci di essere soltanto un pezzo. Noi dovevamo essere noi». Cosi, nel 1945, pochi giorni dopo la fine della guerra, Gaio Sciloni, a vent'annì appena compiuti, si è imbarcato sulla nave Principessa Caterina, che batteva bandiera inglese, diretta in Palestina. «Riportava in Israele i soldati Soldati veri e soldati veri soltanto un po'. Si portavano dietro le mogli: mogli regolari e mogli finte. E poi i bambini, figli di gente che c'era a bordo e bambini che risultavano figli soltanto per via dei documenti. C'è stato un grande scambiarsi di tesserini. Insomma: quegli inglesi li abbiamo un po' ingannati. Ci siamo portati anche qualche pezzo di cannone e scheletri di aeroplani». La nuova terra era «promessa» perché stava scritto nella Bibbia e perché lo voleva la speranza di quella gente in cerca di una patria. «In realtà, ricorda Gaio Sciloni, mancava tutto, si moriva di fame e io avevo nostalgia di Firenze. La mia famiglia si era riunita o, almeno, quello che della mia famiglia era rimasto, perché abbiamo avuto tredici morti soltanto fra 1 parenti di primo grado». Attorno alle città c 'erano macerie e in campagna non c'erano nemmeno quelle. Era il deserto a farla da padrone. Vento, sabbia, poca acqua da usare per irrigare le pianticelle di pochi giorni che avrebbero dato frutti, a Dio piacendo, soltanto con il raccolto dell'anno dopo. Quante volte la disperazione ha corso il rischio di avere il sopravvento? «Ho fatto 11 pecoraio. L'ha fatto anche mia moglie quando era in Cecoslovacchia. A tredici anni ha visto che le portavano via tutta la famiglia e lei è stata mandata in un campo di lavoro. Poi mi sono occupato di agronomia nel Sud di Israele. Di quegli anni mi è rimasta una consulenza in Italia- faccio parte dell'Esau, Ente di sviluppo dell'agricoltura in Umbria». Però con la maturità è venuta la scelta di occuparsi di letteratura e di portare a Tel Aviv gli scrittori italiani. Prima Pratolini, nel 1977, con la casa editrice Amoved. Gaio Sciloni ha tradotto La costanza della ragione. «Sulla copertina abbiamo messo una rosa come quella radicale. Il lavoro? Non facile perché c'è stato il problema di rendere in ebraico i riferimenti e le frasi dialettali. Ho incontrato Pratolini a Roma quando era già malato e aveva smesso di scrivere. Però aveva conservato una grande lucidità ed era fresco di ricordi». Poi Italo Calvino. «Le prime edizioni sono datate 1978. Abbiamo pubblicato i Romanzi fantastici. Nel 1985 sono uscite 85 delle 200 Fiabe: le abbiamo illustrate con alcune stampe di diavoli e briganti prese da un vecchio libro che mi era rimasto da Firenze. Il cavaliere inesistente, invece, è stato arricchito con le foto di antiche armature trovate sui cataloghi dell'esercito». Ma il bestseller è stato Le città invisibili, un successo editoriale inaspettato. «Ci sono state sei edizioni: copertina rìgida con ricami in oro e immagini tratte dal Milione di Marco Polo. In Italia quel libro non ha avuto troppi apprezzamenti, ma in Israele è andato a ruba. C'è una popolazione di quattro milioni di abitanti e vendere alcune migliaia di copie di un libro rappresenta un risultato travolgente. Lui era generoso con me. Diceva: "Si vede che hai trovato la lingua giusta per arrivare agli israeliani"». Sopra lo scrittoio di Gaio Sciloni c'è ancora la fotografia di Italo Calvino, ritagliata da un giornale, fermata con una puntina da disegno, fra il mare, improbabilmente viola, dipinto da un nipotino e una fila d'alberi pitturati da un altro nipote. «Me lo ricordo, Calvino. La prima volta l'ho visto a Parigi. Le sue battute, la sua voce, le sue manie. E la moglie, la Ciquita, che era un'ebrea argentina e che ci invitava nella sua casa della campagna di Siena: "Vi aspettiamo". E io: "Ma no, siamo gente con le toppe al sedere". "Non ti preoccupare, anche noi abbiamo le toppe". E infatti., il meglio vestito finiva per essere il cameriere di colore. Non erano tanto ricchi da permettersi un maggiordomo, ma gli aveva fatto pena quel poveraccio che era arrivato dall'Africa carico di fame e gli avevano dato un lavoro». Il successo dì vendita e di critica ha propiziato un interesse per la letteratura italiana. In Israele si leggono in ebraico tutti i classici. Sono stati stampati il Manuale di estetica di Croce, I Malavoglia di Verga, Uno, nessuno, centomila di Pirandello. «La coscienza di Zeno l'ho tradotto con Ariel Rathaus che, a dispetto del nome, è un romano di Roma. Ci siamo controllati a vicenda perché Italo Svevo è brutto: la sua grazia è la bruttezza». E c'è il De hominis dignitate di Pico della Mirandola. «Qui Pico della Mirandola è conosciuto e guardato con attenzione perché è lo scrittore della cabala. Dal primo versetto della Bibbia ha tratto l'annuncio della nascita di Cristo. Il libro esordisce con bere shit che signica "in principio", ma basta cambiare una vocale: bare shit vuol dire "metterò un figlio", cosa che per gli ebrei fa differenza non da poco». In Israele la letteratura è letteratura d'azione, impegnata, fatta di problemi e di riflessioni, legata alla quotidianità della politica. Il confronto delle idee avviene prima in libreria e poi nella Knesset del parlamento israeliano. Il dramma di un popolo e, probabilmente, le sue contraddizioni animano i lavori di David Grosmann, giornalista della radio di Stato che' ha rischiato il licenziamento dopo la pubblicazione di H vento giallo perché racconta le necessità degli ebrei ma anche il loro integralismo, il fanatismo degli arabi ma anche il loro diritto. «Le nostre contraddizioni, certo». Gaio Sciloni sa che vengono dalla storia: dal 1945 e dal 2000 avanti Cristo. «Le viviamo tutti i giorni e ci aiuta soltanto il nostro buonsenso. Mio figlio Mattali era in età di leva: vado o non vado? La metto la divisa o no? Io gli ho detto "vai". In galera per diserzione non era utile a nessuno: al fronte un giovane democratico poteva servire. In Libano ha salvato un olpista». I palestinesi dell'Olp li chiamano olpisti. «Si sono scambiati l'orologio. Adesso mio figlio guarda l'ora sull'orologio di quell'altro. Hanno promesso di tornare a rivedersi per scambiarselo quando sarà finito tutto questo». n kibbutz del Mapam che è il punto di riferimento della sinistra israeliana ha proposto il Principe di Machiavelli nella traduzione di Gaio SciIoni. «Perché, spiega, ci interessava presentare il capitolo 5 dello scrittore quando parlava dei "territori occupati". Questo maestro della politica vedeve tre sole possibilità. O ammazzi tutti, ma non ti sarà possibile perché uno almeno ci sarà sempre. O cerchi di insediarti, ma non riuscirai mai a vincere le resistenze interne. O farai uno Stato indipendente che potrai controllare. Non è un messaggio anche per oggi? Io alla fine non sono uno di quegli ebrei buoni che si sono fatti ammazzare. Non voglio che sembri un insulto per chi è morto, ma io ho combattuto e combatterei per difendermi Dunque non mi fido di Arafat, ma devo parlargli. Ho parlato con i tedeschi, non devo parlare con gli arabi? Voglio andare ancora più in là: gli parlerei non per amore degli arabi, ma per amore di Israele. L'idea sionista ha valore di per sé, non è razzista e anche gli estremisti come Jabotinsky (con Begin dice di esseme il miglior discepolo) vogliono il rispetto delle minoranze. Allora? Eravamo un popolo e siamo diventati degli imperialisti. Non c'è più nessuno che vuol fare i lavori umili e preferiscono il sussidio di disoccupazione. Meno male che in paese c'è uno yemenita che spazza le strade. Lavora anche di sabato, ma i marciapiedi sono puliti». Lorenzo Del Boca Tel Aviv. Gaio Sciloni