1989: Oscar senza storia

1989: Oscar senza storia A tre settimane dalla proclamazione del prestigioso premio 1989: Oscar senza storia Si sa già chi vincerà: «Rain man» con Dustin Hoffman -1 votanti hanno dimenticato il coniglio Roger I Premi Oscar edizione 1989 non passeranno alla storia: facile indovinarlo a tre settimane dalla proclamazione. Ci sono almeno tre motivi per ridurli a un avvenimento importante ma non sensazionale. In primo luogo si sa già chi vincerà, o per lo meno a chi andrà il maggior numero di statuine (cioè a Rainman). Per di più in un momento di autolesionismo i votanti dell'Academy Award si sono dimenticati il piccolo capolavoro fatto in casa: Chi ha incastrato Roger Rabbit. Infine sarà un'edizione priva di stelle italiane, il che non piace a nessuno nel mondo dello spettacolo. Dustin Hoffman e il suo regista Barry Levinson hanno fatto della loro bravura il punto debole degli Oscar, mai come quest'anno scontati nelle sezioni principali. In Rainman l'architettura del prodotto è studiata con acume e realizzata con eleganza. La diversità del protagonista, un autistico che potrebbe dare fastidio, viene risolta da Hoffman e Levinson con una sorta di sarcasmo nei confronti di noi normali, o privilegiati che siamo. L'operazione, né più né meno che il finale aperto del film dove si segnala un'autentica nascita di solidarietà tra i due fratelli, suscita attenzione e generosità. Tra l'altro la colossale vincita perpetrata al Casinò, che rappresenta come dovunque un centro di potere, dissacra al tempo stesso il mito del denaro e dell'autorevolezza. n secondo punto negativo consiste in una svista. Che il coniglio dalle lunghe orecchie ciondolanti compaia soltanto in categorie minori, indica la sventatezza dei tecnici e degli artisti hollywoodiani i quali non si rendono conto del monumento che Spielberg, la Walt Disney e il regista Robert Zemeckis hanno innalzato proprio al loro lavoro. Chi ha incastrato Poher Rabbit è un film bello e originale, che conferisce alla giovane America una sua profondità culturale. Se infatti oltre Oceano non esiste un7liade o una Divina Commedia, e non si fa riferimento a uno Shakespeare o a un Pascal, altre devono essere le proposte della cultura contemporanea. Hollywood, falsando in termini epici la sto¬ ria, ha di conseguenza inventato il genere western. Perché non consentirle di andare fiera dei suoi cartoons? La commistione tra disegni animati e attori autentici non avvera soltanto una scommessa giocata in termini tecnici. Esalta la fantasia degli spettatori, i quali trovano nel loro immaginario le più strambe e insieme tangibili figurine. Quando pensiamo che Bob Hoskins e tutti gli attori, per motivi facilmente immaginabili, hanno recitato nel vuoto come se avessero di fronte i cartoon i quali invece venivano pennellati in un secondo tempo, intuiremo l'apertura che il film ha offerto alla recitazione e alla ripresa. Sarà un po' infantile l'ideologia alla Spielberg del divertire a tutti i costi, però essa implica una buona fede non comune nell'industria dello spettacolo. Non solo ma — garantendo la circolazione e l'importanza di figurine solo disegnate nei confronti di umani possenti e storicizzati — il film stronca in partenza le future deviazioni razzistiche. Amare oltre a Roger Rabbit e all'incendiaria Jessica tutte quelle figurette secondarie e petulanti equivale a non stupirci che nel mondo si trovino elementi diversi da noi. Infine manca nella maniera più assoluta tra le nominations un nome italiano. Questo non è colpa al 100% dei soci dell'Academy Award perché da una generazione ormai ci dibattiamo in una pesante crisi. Ebbene il marchio tricolore rallegrerebbe la consegna dei premi, allar¬ gherebbe la partecipazione e (parliamo pure di integrazione) favorirebbe la colonia italiana che in materia di spettacolo ha dato molto. Ricordiamo la gioia di tutti l'anno scorso nell'assegnare una valanga di voti a Bertolucci e al cinema italiano, benché L'ultimo imperatore fosse una produzione intemazionale di stampo britannico. E ricordiamo quanta serenità hanno offerto in passato De Sica e Fellini, Anna Magnani e Sophia Loren. That's amore!, cantavano i divi. Quando Hollywood, cioè l'industria, premia l'Italia cioè l'artigianato, si fa l'esame di coscienza e ne esce rigenerata. Entrambe le parti diffondono ognuna a modo suo la cultura popolare. Se non si riscontra tale «feeling», la cosa sa di malaugurio. Non possiamo guardare in continuità Good Morning, Babilonia dei Taviani che svolgeva appunto questo concetto. E poi non ci saranno rivelazioni dal film straniero. Non si conosce il belga L'insegnante di musica ma l'ungherese Hanussen, il danese Pelle il conquistatore, lo spagnolo Donne sull'orlo di una crisi di nervi e l'indiano Salaam Bombay sono validi e non stupefacenti. Forse, assegnando l'Oscar a Salaam Bombay diretto da Mira Nair che ha studiato in America e predilige il neorealismo, si riallacceranno arcanamente i rapporti con il nostro cinema. Piero Perona Dustin Hoffman protagonista di «Rain man», il film pluricandidato

Luoghi citati: America, Hollywood, Italia, Rainman