Carol Rama, teatrino di crudeltà di Umberto Eco

Carol Rama, teatrino di crudeltà IN 64 OPERE LE STAGIONI DI CINQUANTANNI DI ARTE Carol Rama, teatrino di crudeltà TORINO — Olga Carolina Rama, nata nel 1918. A Torino, non nella Parigi della seconda generazione surrealista e di Meret Oppenheim; nemmeno nella Colonia di Ernst, o nella Hannover di Schwitters, o nella Berlino di Hannah Hóch. La ragazza volava su Torino con Mollino, progettista di ambienti per atti e sogni erotici; alla donna Massimo Mila donò sette suoi denti (e lei li infisse nel suo ritratto), e per lei rievocò la vecchia e perenne massima di Vittorio Alfieri sulla Torino periodica produttrice di matti geniali senza paragoni al mondo. Sanguineti per lei, 1980: -le lingue esposte lunghe (esperte), e i cazzi I contundenti (a tensione, a contenzione): (i corpi, insomma): e i lacci, e i ganci (e i pazzi)... i macelli I (le macellale), i coltelli, e le vere I scarpe: i pesci esibiti (e reti, e anelli), I i mezzi pezzi (imputati): e le fiere, I i mercati: (fioriscono i capelli):'. La Macelleria del 1980, stupenda beffarda dissacrazione di ogni greve realismo pittorico alla Guttuso, con un livello qualitativo del tutto degno di un Dix o anche di un Ertsor, campeggia nella terza sala della mostra al Circolo degli Artisti (fino al 23 aprile). Rappresenta lo snodo essenziale, lungo i cinquant'anni di attività presentati, fra la fase densa e magica delle «gomme» degli Anni 70, che affondava nell'inconscio, e il ritomo attuale alle grafitanti stregonerie delle origini. Prima, seconda, terza sala con appendice; percorso e discorso di pittura, di materie e di immagine che, come scrisse a ragione tre anni fa Dario Trento, -è uno dei fatti eclatanti di questo secolo», ovvero, come scrive oggi Fossati, ordinatore della mostra con la collaborazione di Corrado Levi, nel catalogo Allemandi, è «eccezionale nel quadro della creatività tout court di questi anni ». C'è anche, e quanto!, un perenne scambio allucinato e allucinante fra sensi e nervi e cerebro del «personaggio» Carol Rama e macula cromatica, grafia, materie elaborate e dadaisticamente recuperate dal quotidiano. Il personaggio in carne miniaturizzata, sotto capelli a bosco e parrucche e trecce, reificava con dolce sadomasochismo la genia fantastica e astratta della sposa messa a nudo dai celibatari, di Duchamp. Per lunghi anni nell'altra Torino, quella lucida e pazza, questa messa a nudo era mito e rito di pochi privilegiati aficionados, Mollino e Galvano, Sanguineti e Calvino, Mila e Beno. Poi, tardi, negli Anni 70. Man Ray e Warhol e la Oppenheim scopersero, ammisero, tramite personaggio ed opera, che la sua Torino era tempio e nido d'infrazione assoluta, disturbante, inquietante quanto Parigi e New York, e le già lontane e incenerite Berlino, Colonia, Hannover. Ma ancora quattro anni fa, per pubblica celebrazione, personaggio e opera dovettero emigrare a Milano. Per questo risarcimento torinese Fossati ha scelto la via maestra della liberazione da ogni ormai acquisita, delibata aura pittoresca del personaggio a favore del suo riversarsi, connaturarsi nella costante, assoluta qualità della cin¬ quantennale creazione di un mondo «totale» di colori, di segni, di fantasie del sottosuolo e del sottopelle. Ed ecco allora, per scansioni precise e fluenti, le stagioni di Carol Rama in 64 tappe nel breve, miniato spazio, piuttosto del foglio che della tela; con in più il feticcio assai inquietante di Presagi di Birnam (la foresta mobile, umana e mortale, del MacLrth), cavalletto di ferro reggente pneumatici di bicicletta, visceri tagliati ed esibiti con oscena raffinatezza di una defunta civiltà tecnologica. A esordio, dal 1936 al '46, il sadismo in punta di penna e di acquerello dei fogli di esibizione, dolce e preziosa, di erotismo e di costrizione e di feticismo, con il loro profumo, unico e anticipatissimo all'epoca, di dimenticate Secessioni, di Wildt, di incisioni rimaste nei cassetti di Casorati. I meandri della cultura, dell'invenzione, come quelli della forma, sono labirintici, ingannevoli, in un clima di veggenza che evoca e rimanda a ciò che accadrà, ovunque, anni e decenni dopo: art brut, o addirittura postmodernità; paralleli' feticismi surrealisti dell'oggetto; pelliccette di volpe parenti della pelle di scimmia di Italo Cremona. Nel salone, il ventennio del dopoguerra, che si apre con la partecipazione al gruppo torinese del Movimento Arte Concreta. In gran parte eterodosso, il gruppo, rispetto alla linea dell'astrazione geometrica, più occhieggiante — presenza di Galvano, ma anche e più di Carol Rama — alla psicologia dinamica, alle vibrazioni informali. Massimamente eterodossa. come sempre, Carol Rama. Il libero vagare delle immagini impudenti, secondo i capricci stregati della psiche e dei sensi, nei fogli giovanili diventa fantasia ondivaga, onirica di microsegni e microgeometrie colorate nel piccolo schermo del foglio; più avanti, fra gli Anni 50 e 60, coagulazione dal •sottosuolo» (l'espressione e di Manganelli) di setose, vellutate maculazioni. in cui la libera indifferenza nei confronti delle formule informali, quanto nei confronti delle formule opposte (le poetiche oggettuali, neodadaiste ), è significata dagli inserti beffardi e sempre conturbanti, gli occhi di bambola, i materiali di bricolage quotidiano. Le «gomme» degli Anni 70 coniugano nitidezza dinamica della struttura, bellezza sognante della pittura di tono, del tutto degna dell'ultimo Burri, con l'acidula equivocità fra materiale industriale povero e allusività carnale di una superficie che è meglio definire epidermide. E infine le carte dell'ultimo decennio, che dispiegano, in un continuo gioco magico e maligno, sulla base stampata dei modelli di macchine e di architetture di vecchie scuole d'arti e mestieri, un immaginario stregonesco e diabolico e angelico. L'infrazione (quell'ironia che Savinio esaltava come valore assoluto della vita quanto della forma visiva) continua con intatta vitalità: in questi fogli, transavanguardia. Paolini, Salvo. Ontani sono trascritti e dissacrati da una monaca posseduta in un ignoto — ma torinese — scriptorium fonda to da Umberto Eco. Marco Rosei