L'irresistibile carica dei coloni di Deng di Domenico Quirico

L'irresistibile carica dei coloni di Deng L'irresistibile carica dei coloni di Deng Sono militari di leva che sulla cartolina-precetto hanno letto con disappunto la destinazione Tibet, contadini rimasti senza terra dopo Io scioglimento delle comuni, funzionari e diplomati convinti con promesse di stipendi migliori o minacce di restare senza lavoro: decine di migliaia di «coloni» che dal 1983 Deng ha inviato sul tetto del mondo per far diventare cinese la più inquieta delle province dell'impero. E così gli han hanno superato i tibetani e sono diventati maggioranza perfino a Lhasa, la città del dio-re, sacra alla reincarnazione terrena di Avalakiteshvara. I colonizzatori controllano tutto quello che conta: l'amministrazione, le scuole, i servizi, dove soltanto da poco il tibetano è tollerato come «seconda lingua»; soprattutto il commercio privato che anche a migliaia di chilometri da Pechino è stato riabilitato dalle riforme e ormai coinvolge in piccoli e grandi affari trentamila famiglie. (E infatti il primo obicttivo dei dimostranti sono sempre i negozi «cinesi» della capitale). Si sono costruiti quartieri, scuole, campi sportivi e locali per lo svago off limits per «i locali». Sognano di fuggire il più presto possibile da questa regione inospitale, ottenendo un posto in una delle zone economiche speciali dove il capitalismo non è più una malattia. Tutti, militari e civili, odiano i tibetani che considerano selvaggi e feroci, la cui tenace religiosità sembra loro medioevalc follia. Nonostante la propaganda cinese moltiplichi tranquillizzanti proclami sull'integrazione e il dialogo fraterno tra le due comunità, il Tibet resta una «colonia», dove quello che conta è il pugno di ferro di migliaia di soldati. In cinese Tibet si dice «nàn», un ideogramma che indica anche un luogo lontano e ostile: è il segno linguistico di una ostilità che affonda le radici nei millenni, quando i nomadi tibetani terrorizzavano i contadini cinesi rifugiandosi, dopo le razzie, sulle loro inaccessibili montagne. Quando nel '50 le truppe di Mao espugnarono l'inerme regno del Dalai Lama, per tutti i cinesi fu una grande rivincita storica. E anche se nei documenti ufficia¬ li vengono condannati gli «eccessi» della Rivoluzione culturale, un milione di tibetani uccisi, scimila monasteri rasi al suolo in nome del modernismo rivoluzionario, in realtà ben pochi li considerano un delitto della Banda dei quattro. Contro l'anima dei tibetani Deng ha applicato la vecchia tecnica dei conquistatori, farli diventare minoranza nel loro Paese e nello stesso tempo cancellare la loro civiltà. E' contro questa trama che ogni giorno li rende più estranei alla loro terra che monaci e ragazzi insorgono ormai con cadenze sempre più frequenti. Pechino replica alle «calunnie» del Dalai Lama ricordando che, quando i soldati di Mao arrivarono a Lhasa, nella capitale non c'era una strada degna di questo nome mentre oggi nonostante le terrìbili difficoltà geografiche oltre 21mila chilometri di arterie attraversano il Paese. Le scuole nel '60 erano tredici in tutta la regione; oggi ci sono tre università e oltre duemila istituti tra primari e superiori. Una «missione civilizzatrice» costata alla Cina dicci mi¬ lioni di yuan, quattromila miliardi di lire, uno sforzo enorme per una nazione sottosviluppata, ma che non ha tolto al Tibet lo scomodo primato di provincia più povera del Paese facendola pagare con ferite sanguinose nella sua identità millenaria: i monasteri oggi sono protetti dal governo (anche perché rendono in turismo), ma nessuno potrà ricostruire quelli distrutti, e l'equilibrio socio-economico è stato sconvolto irrimediabilmente dalle collettivizzazioni e dall'obbligo di sostituire alle antiche colture, come l'orzo, il riso e il grano della dieta dei colonizzatori. E Deng ha già ideato un altro «aiuto fraterno» che nasconde una insidia mortale. Quattromila ragazzi tibetani sono stati dispersi nelle scuole di tutta la Cina: «Sono in ritardo rispetto ai loro coetanei» hanno spiegato le autorità centrali, seguiranno corsi particolari per migliorare la loro preparazione tecnica e culturale. Quando torneranno, dopo un bagno di civiltà cinese, saranno forse i docili collaborazionisti di Pechino. Domenico Quirico

Persone citate: Dalai Lama, Mao

Luoghi citati: Cina, Pechino, Tibet