«Super ticket per i ricoveri» di Francesco Cevasco

Nelle cliniche di Milano è più difficile abortire Dopo la denuncia di Formigoni e l'ispezione del ministro Nelle cliniche di Milano è più difficile abortire Dambrosio: un ospedale ha respinto una ragazza, vada alla Mangiagalli, noi temiamo la galera MILANO — Qualcosa è cambiato, in questi due mesi, per le donne che vogliono (o devono) abortire. «Per esempio, ieri si è presentata qui da noi una ragazza. Sono appena stata in un altro ospedale, diceva, a chiedere l'intervento per interrompere la gravidanza. Mi hanno risposto: vada in Mangiagalli, noi non vogliamo mica rischiare la galera». In una breve pausa durante la mattinata dedicata all'ambulatorio di senologia, il professor Francesco Dambrosio, uno dei dieci (su 57) ginecologi nonobiettori della clinica milanese parla del contraccolpo psicologico provocato sulle donne dalle polemiche, dalle accuse, dalle inchieste del ministero della Sanità e della magistratura sugli «aborti facili». Quella ragazza, probabilmente, ha esagerato. «Ma una cosa è certa — aggiunge Dambrosio —: da quando noi abortisti siamo descritti come una banda di delinquenti, come un'associazione a delinquere solo perché abbiamo denunciato l'impossibilità di far rispettare la legge che assicura alle donne il diritto dì abortire, chi vuole interrompere la gravidanza ha un problema psicologico in più». Dopo che le cartelle clinic)^ dei casi «sospetti» sono finite sui giornali, dopo che sono state fotocopiate dagli ispettori del ministero, dopo che Donat-Cattin ha preannunciato l'invio alla magistratura delle «storie sanitarie» di una dozzina di donne, qualcosa è cambiato nell'approccio tra la paziente e il medico. Spiega Dambrosio: «Molte hanno perso fiducia nel servizio pubblico. Temono che l'ospedale non sia più in grado di garantire loro la riservatezza su una ques}ione cosi delicata come l'aborto. Temono di finire, magari "solo" a testimoniare, davanti a un magistrato». I numeri non sembrano dare ragione a Dambrosio. Ieri alla Mangiagalli c'erano quaranta donne in lista d'attesa per l'intervento. Negli ultimi due mesi la media degli aborti non è scesa al di sotto dei soliti 23-25 la settimana. «L'effetto di questa situazione si sentirà più avanti — replica Dambrosio —. E poi, nonostante le amarezze (le accuse ingiuste, gli obiettori che diventano ogni giorno più numerosi) i medici hanno fatto il possibile per assicurare il servizio. Adesso abbiamo un compito in più: garantire noi la massima riservatezza alle pazienti». Il direttore del servizio interruzioni della gravidanza ha un modo tutto suo per spiegare come si fa tutore del segreto professionale: «Net momenti più caldi sono arrivato a mettere sotto chia¬ ve le cartelle cliniche. Ora le mando regolarmente in archivio, lo non posso fare il carabiniere. Ma se viene un'altra ispezione, se qualcuno si avvicina alle cartelle, i carabinieri li chiamo io». Non tutti i ginecologi abortisti, però, si sentono sicuri come Dambrosio. Anche per loro qualcosa è cambiato nelle ultime settimane. «C'è chi si autocensura — spiega il leader dei nonobiettori —: e, prima della sua firma sul certificato che autorizza l'aborto, adesso vuole anche quella di uno psichiatra». Dambrosio parla senza mezzi termini («spione e vigliacco» ha definito il presidente del consiglio d'amministrazione degli Istituti clinici cui fa capo anche la Mangiagalli, Angelo Craveri, che ha mandato alla magistratura un esposto su un aborto «sospètto» fatto proprio da Dambrosio; e per quelle parole il ginecologo s'è beccato una querela). Ma quando gli si chiede delle pazienti nel suo reparto si chiude: «Io sì che mi sento vincolato al segreto professionale, mica come Donat-Cattin e i suoi ispettori». Cita soltanto la sua relazione sull'attuazione della 194 alla Mangiagalli: «Le donne che necessitano di intervento dopo il terzo mese (aborto terapeutico) sono ospitate nel reparto di Patologia ostetrica dove sono disponibili quattro letti per questo tipo di intervento. Tale soluzione non è certamente quella ideale per le pazienti perché vengono a trovarsi in un reparto specializzato nella cura di altre gravide che presentano problematiche completamente differenti e nel quale opera personale medico e paramedico obiettore». Nonostante la barriera protettiva di Dambrosio, qualche donna racconta: «Quando si entra in ospedale per l'intervento tutto si vive filtrato dalla paura. Non è una paura di tipo sanitario. Lo sappiamo che i rischi sono praticamente inesistenti. E' la paura di fare una cosa sbagliata. E' la paura di infilarsi in una specie di arida catena di montaggio. E' la paura di sentirsi sole, dopo. E' il disagio di sentirsi dire da un obiettore: lei è una poco di buono. E adesso c'è una paura in più. Magari ce l'hanno solo le persone meno informate, ma non è detto che si debba andare ad abortire dopo aver letto il giornale. La paura che poi si sappia in giro». Oggi è l'8 marzo, festa della donna. I soliti cortei di tutti gli anni. E uno in più: finirà davanti alla Mangiagalli. Sentiremo slogan così: «Donat-Cattin, noi siamo qui/e tu vai via da li». Francesco Cevasco

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