Il bravo Montemezzi è troppo wagneriano

Il bravo Montemezzi è troppo wagneriano A Palermo «LiAmore dei tre re», direttore Klobucar Il bravo Montemezzi è troppo wagneriano Musica senza bagliori per il drammone medioevale • Regia di Sequi PALERMO — Il Teatro Massimo, in atto al Politeama Garibaldi perdurando i lavori di restauro, non manca mai di scovare nella storia del teatro musicale qualche pezzo raro, qualche titolo che gii annali dell'opera hanno celebrato (e qualche motivo ci sarà pur stato) e poi lasciato scivolare nel silenzio; l'ultima di queste rievocazioni è L'amore dei tre re del veronese Italo Montemezzi, andato ora in scena sotto la direzione musicale di Bcrislav Klobucar e con una regìa di Sandro Sequi molto impegnata a «raccontare» il lavoro proprio nella sua storicità. L'amore dei tre re fu battezzato nel 1913 alla Scala, che registra anche la sua ultima esecuzione scenica nel 1953 sotto la bacchetta illustre di Victor De Sabata; sul grande successo iniziale (oggi ancora avvertibile in teatri inglesi e statunitensi) certo influì il libretto di Sem Benelli, sull'onda della Cena del 1919, e la smania sensuale dannunziana, la sua letteraria amorosità. La vicenda si svolge nel Medio Ilvo, "in un remoto castello d'Italia, 40 anni dopo un'invasione barbarica»; i tre re sono il vecchio Archibaldo, suo figlio Manfredo e Avito, ex re soggiogalo e ora amante della slessa Fiora, sposa di Manfredo. Il vecchio, che è cieco ma ha orecchio finissimo, sente lo strisciale dell'amante, trasalisce ad ogni passo, ad ogni respiro della coppia colpevole, e ad un certo momento abbranca la donna e la strozza con le sue forti mani di guerriero; non conlento, cosparge di veleno le labbra della morta per impaniare l'aman- te con un bacio fatalo; ma all'appuntamento arriva anche Manfredo che morirà fra le braccia del padre impietrilo dal dolore. In una vicenda così madornale, Monlcmezzi versa una musica professionalmente proba, educata e polita, affatto succubo dell'astro wagneriano, con qualche aggiornata apertura a Strauss (nel preludiato al terzo atto) e un curioso assorbimento del Boris nel coro dietro le quinte nella scena delle esequie. Ma nessuna idea musicale risolutiva attraversa la partitura; la frenesia degli amanti si diluisce nel garbo di cadenze e modulazioni, in mormorii pulsanti: quando i giovani si impennano in «Struggimi tutto con il tuo calore!» o • «Disperatamente chieggo la tua bocca!» si rimpiange lo slancio melodico dell'immortale «Straziami, ma di baci saziami»; e anche Respighi, nella Fiamma, per restare in climi consentanei di cupezza e parossismo erotico, trova accenti molto più convincenti. Il personaggio più interessante è il vecchio Archibaldo; si macera nella vendetta, forse nell'invidia e nel rimorso per aver speso la sua gioventù nella guerra invece che nell'amore, e tallona gli innamorati con morbosa determinazione; e una parte che piacque a interpreti come Tajo e Rossi Lcmcni, e anche qui riceve uno scultoreo rilievo da parte del basso John Macurdy, ad onta di qualche forzatura verista. Marilyn Zschau e una Fiora musicalmente vibrante, ma molto vaga nella pronuncia delle parole; come Avito, parte tenorile quasi sempre spinta all'acuto, Carlo Bini incontra continue difficoltà; sicuro il Manfredo di Elia Padovan, affiancato da Renato Cazzaniga (il servo Flaminio) e altre apparizioni minori. La direzione del Klobucar è alquanto dimessa; chi ha creduto di più nel lavoro e Sequi, che ha mosso la regìa con efficacia coadiuvato dai bozzetti e costumi di Giuseppe Crisolini Malatcsta: nel fastoso allestimento scenico di Antonio Carollo il nome di Fiora è esploso in un tripudio di rose, di fiori verzicanti c rampicanti quasi a suggerirne, sulle assi del Politeama, un aroma fermentato e inebriante. Pubblico un po' guardingo, ma grato in fine alla compagnia per l'animosa ripresa. Giorgio Pestelli Marilyn Zschau

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