A Budapest duello a colpi di Storia di Guido Rampoldi

A Budapest duello a colpi di Storia Dietro al dibattito sulla rivolta del '56 una feroce guerra di potere A Budapest duello a colpi di Storia I riformatori vogliono riabilitare Nagy per condannare Kadar e i falchi del partito - Cade anche l'ultimo tabù, la liberazione sovietica nel '45 che ora si comincia a definire apertamente «una occupazione» DAL NOSTRO INVIATO BUDAPEST — «E' come se questo Paese si fosse trasformato in un grande tribunale. Tutti die corrono a mettersi la toga dei giudici per puntare l'indice contro tutti, gridando la stessa accusa: collaborazionista! Posso capire i giovani, ma gli altri, quelli che adesso si scoprono "opposizione", dov'erano in questi decenni? Perché la verità è che chiunque lavorasse, in qualche modo collaborava con il potere. Se questo vuol dire essere stato un collaborazionista, allora diciamolo: lo siamo stati tutti!». Ma cos'ha da temere Wilmos Farago da questo «processo» collettivo ai 41 anni di regime comunista, e perché ora si sente «come dentro una macchina centrifuga», sballottato da tutte le parti? Non è stato forse Elet Es Iròdalom, il settimanale di cui è vicedirettore, una delle voci ufficiali meno servili durante il trentennio kadarista? Non è stato proprio questo organo culturale comunista il primo ad attaccare Kadar, due settimane fa, chiedendogli conto dell'impiccagione di Rajk, dell'esecuzione di Nagy, del voltafaccia con il quale nel '56 passò nello spazio di un pomeriggio dagli insorti agli invasori sovietici?. «Attacco? JVo, gli abbiamo fatto solo alcune domande, in tutta simpatia». Però subito il giornale del partito ha polemizzato con le curiosità di Elet Es lrodalom; il primo segretario comunista, Grosz, ha ammonito la stampa; e Kadar è tornato sulla scena, per presiedere l'ultimo comitato centrale. Ma non è un'improbabile rappresaglia che oia inquieta Wilmos Farago. Di più lo angoscia la reazione della stampa «radicale», che ha irriso il nuovo anticonformismo del settimanale contestandogli anni di omissioni, mezze bugie, attacchi maligni «ispirati» dall'alto, insomma quello che sarebbe stato il prezzo pagato da Elet Es lrodalom per la proprio autonomia. 'Nel partito ci consideravano l'opposizione, c'erano dirigenti che dicevano: aspetto con paura il venerdì per leggere che cose terribili scriverete. E adesso veniamo trattati come stalinisti.'». Questo capita nell'Ungheria d'oggi a chi si trova nella posizione più infelice, proprio a metà strada fra la trincea dell'oligarchia politica cresciuta nel leaderismo e la prima linea dei radical-riformisti del partito. Senza difesa, senza alleati, in una terra di nessuno dove si va all'assalto brandendo schegge del passato come acuminate armi mortali. L'insurrezione del '56 cessa di essere «controrivoluzione» senza diventare ancora completamente «rivolta popolare», come stabilisce il Comitato centrale dopo lunga mediazione, ma già nel politburo Pozgay e Nyers, la minoranza radicale, organizzano la prossima offensiva. Hanno ottenuto l'impegno del partito a riesaminare i processi politici dal '48 al '62; tra poco, assicura un loro autorevole interlocutore, chiede¬ ranno che sia riaperto il processo a Imre Nagy. Sembra un dibattito storico-politico ma è una feroce guerra di potere. Perché riabilitare Nagy non è ininfluente. Significa automaticamente condannare e liquidare un gruppo di potere coinvolto in quella storia. Togliere di mezzo definitivamente Kadar, che per quanto declinante resta il presidente del partito. Smascherare il tentativo trasformista del capo dei falchi del politburo, Berecz, autore di forsennati libelli sul '56. Mettere fuori gioco una fetta importante della Nomenklatura, per esempio l'ambasciatore a Mosca, l'ufficiale che arrestò Nagy; ma soprattutto il potente capo del Reparto politico, la polizia segreta, il generale Harangozo, uno degli «inquisitori» nei processi agli insorti. Se il fuoco degli attaccanti è concentrato sul '56, il fronte si allarga mese dopo mese, e ormai abbraccia per intero la storia del regime. L'opposizione ha già pronto un film di 3 ore sull'antisemita Zoltan Bosnak, ucciso nel '52: con la promessa di sottrarlo alla forca, gli venne estorto un memoriale di 200 pagine pieno di bugie che Rakosi utilizzò per far condannare a morte gli avversari politici. Il circolo Munnich, baluardo ideologico dei brezneviani e di ambienti della polizia segreta, non riesce a controbilanciare il peso di una stampa radical-comunista sempre più spregiudicata. Mlklos Vasarhely, presidente dell'Associazione per la giustizia storica, constata: «Sta cedendo anche l'ultimo tabù, la liberazione sovietica». Che si comincia a raccontare diversamente da come la rappresenta il Museo di Budapest e la storiografia ufficiale, dove non v'è traccia delle migliaia di deportati in Urss e delle linee di produzione smantellate e rimontate oltreconfine, la dura ammenda pagata dall'Ungheria per scontare l'adesione all'Asse. Con i sovietici che diventano occupanti anche nel '45, come più tardi nel '56, ecco rinsaldarsi lo schema «politico» che vuole l'Est sempre nemico, «metafora di assolutismo, di estraneità alla civiltà ungherese», come dice Miklos Szabo, un intellettuale del bimensile clandestino Bezelo, la voce storica dell'opposizione. E' arduo equiparare i mongoli che ammazzarono un ungherese su due, convinti che i morti li avrebbero serviti nella vita ultraterrena, con i sovietici dell'Armata rossa. Ma nel riscrivere la Storia l'opposizione ha bisogno anche di simboli, non solo di verità. Così scarta la linearità e sceglie il labirinto, la ciclicità, le analogie. Sarà la figlia di Szilagy, impiccato con Nagy, ad aprire il corteo dell'opposizione il 15 marzo, anniversario della rivolta del 1848 contro la tirannia asburgica. Ma in questo labirinto qual è il posto dell'Ungheria «sottratta» all'Est? Ecco nella letteratura ungherese affacciarsi un mito post-moderno, la Mitteleuropa. Ma con almeno tre letture. Quella più popolare vive nei romanzi storici di Tibor Cseres, presidente dell'associazione degli scrittori, ed è orientata verso l'Europa di lingua tedesca. Quella più politica attualizza l'idea risorgimentale di una confederazione di Stati centroeuropei neutrali — dall'Estonia alla Croazia, dal Baltico all'Adriatico — e la ricollega al pensiero del cristiano-socialista Istvan Bibo, perseguitato dal regime e adesso oggetto di un vero culto proprio tra gli intellettuali comunisti. Negli scritti del dopoguerra, Bibo teorizzò un'equidistanza anche politica del Paese di Mezzo, dove avrebbe potuto realizzarsi una sintesi tra democrazie liberali e socialismo reale. Ma la metafora di Mitteleuropa che piace più all'opposizione porta la firma di Gyorgy Konrad, considerato il più grande scrittore ungherese di questi anni. Claudio Magris la riassume così: «Un rifiuto della panpoliticizzazione totalitaria, come invadenza dello Stato e della Ragion di Stato in ogni sfera dell'esistenza — invadenza che può verificarsi, con tecniche diverse, a Est come a Ovest... una concezione o speranza di un'Europa unita e autonoma tra i due blocchi, nella convinzione che le contese tra russi e americani, che oggi sembrano il perno della storia universale, un giorno appariranno insensate o irresponsabili come quelle tra francesi e tedeschi di pochi decenni fa». Guido Rampoldi