Caracas ancora morti di Mimmo Candito

Caracas, ancora morti Attenuato lo stato d'assedio, ma si continua a sparare Caracas, ancora morti Cresce il sospetto di un regolamento di conti da parte dell'esercito e della polizia Molti cadaveri portano i segni di una esecuzione -1 negozi restano sempre chiusi DAL NOSTRO INVIATO CARACAS — Si continua a sparare, e a morire. Il governo dice che l'emergenza è terminata, ma nell'obitorio di Bello Monte i nuovi cadaveri continuano ad ammucchiarsi come sacchi vuoti sull'inferno di corpi stesi in ogni angolo. Il conto già ufficiale si avvicina a 500, credo che alla fine dovremo accettare almeno un migliaio di vittime. Cento corpi sono stati sepolti in una fossa comune, mancano casse da morto, cassetti frigoriferi, mezzi di identificazione e di assistenza. Ieri è piovuto, il traffico del weekend era più scarno; e già si annuncia la ripresa delle corse ippiche. La schizofrenia di questa città si è fatta agghiacciante, insopportabile. Come a Beirut, peggio forse che a Beirut, due realtà drammaticamente contrapposte si vanno abituando a una coabitazione impossibile, e non sempre il contrasto è solo la bugia delle autorità. Ieri notte abbiamo fatto un giro per le strade di Caracas, con un salvacondotto del ministero della Difesa. La città dormiva inquieta, muta, sotto un silenzio irreale. Attorno a noi c'era solo il vuoto e le pattuglie militari che ci fermavano per un controllo a mitra puntato. Le luci al neon accendevano i loro colori sui fantasmi della notte; non abbiamo incontrato un passante lungo i chilometri immobili delle strade, non un'auto privata. I colpi secchi delle piccole battaglie tra soldati e tiratori arrivavano rapidi nel buio, dalla periferia, scavalcando i grattacieli del centro. Si spara nella zona Ventitré de Enero, nel Valle, al Lidice; ci sono interi quartieri dove non si passa. E non si capisce se ci sia una guerra o solo la paura di un cecchino. I soldati sono nervosi, hanno l'ordine di sparare a vista e lo fanno. Molti dei morti che abbiamo visto nell'obitorio sono le vittime di queste battaglie inutili. Ma molti morti, troppi forse, hanno la traccia dell'ultimo sangue al petto o alla testa. Come se fossero stati ammazzati con un colpo tirato a giustiziare. Voglio dire che si sta facendo strada il pesante sospetto che qui il mantenimento dell'ordine pubblico non sia stato osservato affatto nel rispetto delle leggi, quali che siano queste leggi una volta che venga dichiarato lo stato d'emergenza. Abbiamo visto nei primi giorni di scontro, tra lunedi e martedì, come poliziotti e soldati sparassero diritto contro il petto della gente in fuga; scene di guerra sono state la cronaca tragica e costante di questi scontri. E spesso erano battaglie autentiche, con scambio di colpi da una parte e dall'altra. Ma poi, quando i militari hanno messo la città in stato d'assedio, e di battaglia nelle strade non ce n'era più, troppe notizie di morti e di scontri hanno mostrato contraddizioni ambigue, e troppi episodi lasciano il dubbio che le forze armate abbiano l'autorizzazione a risolvere le incertezze con l'uso immediato delle armi. Di più. Comincia a esserci qualche amara domanda che si stia procedendo non solo con brutalità sommaria ma anche un ordine di annientamento di tipo, diciamo, ideologico, volto cioè a eliminare tutti i perturbatori, veri o comunque potenziali. Caracas è un lungo serpente infilato nella valle che scende giù al mare. Il centro residenziale sta in basso, fatto di superstrade, di grandi complessi commerciali, di grattacieli a schiera, una sorta di Los Angeles tropicale; tutto attorno, sulle pendici delle collinette che accompagnano la vallata, stanno acquattati i «ranchitos» della disperazione, le baraccopoli dove più di due milioni di abitanti senza identità e senza illusioni trascinano una vita di miseria. In questi 'ranchitos», in molti di loro comunque, non si entra: non si entrava prima, non entrano ora nemmeno i soldati. E quando cala la notte, e arriva il coprifuoco, bande di disperati scendono silenziosamente a valle per acchiappare la fortuna. Come a Beirut, si vanno formando gruppi organizzati di abitanti preparati all'autodifesa; non siamo ancora alla guerra per bande, ma due Caracas si stanno affrontando nella geografia difficile di una stessa città e non c'è molta pietà da incontrare. La schizofrenia sopporta la guerra sporca e, contemporaneamente, l'indifferenza. U rettore dell'università, Luis Fuenmayor Toro, dice che bisogna tornare subito alla legalità costituzionale, e che la violenza della legge d'assedio è uno strumento pericoloso; lascia immaginare un deterioramento grave delle garanzie giuridiche. Ma i tre quarti di questa immensa capitale hanno già dimenticato ì morti che continuano a farsi nei «tiroteos» della periferia e badano solo a trovare qualcosa da mangiare; il coprifuoco, ridotto adesso a otto ore, dalle 20 alle 5 del mattino, rappresenta questa nuova incoraggiante planimetria dell'ordine pubblico. I negozi intanto continuano a restare in gran parte chiusi, e si va nei mercati a vedere se sia arrivato qualcosa dall'interno del Paese. Il governo dice certamente il vero quando fa parlare come pappagalli i giornalisti della radio e della tv che annunciano che 'il Venezuela sta rientrando nella completa normalità», ma lui e i suoi giornalisti mentono per omissione quando tacciono sugli spari e sui morti che stanno nascosti sotto quell'aggettivo «completa». A Ciuciaci Bolivar, a Puerto de la Cruz, e in altre due piccole città dell'interno, il coprifuoco è stato tolto; qui a Caracas è ridotto. L'emergenza va terminando, ma restano i focolai di guerriglia, i quartieri tuttora off-limits. Nei -ranchitos» ci sono soprattutto colombiani, ecuadoriani, dominicani, contadini dell'interno venuti a cercare una impossibile speranza Gli scontri e le piccole battaglie sono spesso guerre xenofobe, oltre che guerre della miseria. Il modello venezuelano si è andato consumando nel crollo dei prezzi del petrolio, in questi giorni se ne celebra l'ultimo amaro funerale. Le casse dello Stato non hanno più un bolivar, le riserve internazionali sono ridotte a meno di 400 milioni di dollari; e il debito estero supera i 35 miliardi da pagare. La bancarotta è vicina. Nelle parole di Carlos Andrés Perez, l'altro ieri qualcuno aveva letto con frettolosaà che il Venezuela annunciava una moratoria nel pagamento di questo debito; c'è stata un po' di maretta, tra smentite e precisazioni, ma in realtà la sospensione nei pagamenti era già stata richiesta al Fondo monetario mondiale il 26 febbraio, prima cioè dell'esplodere della crisi, e viene negoziata all'interno delle discussioni in corso per rifinanziare il debito. Perez è un buon demagogo ma anche un buon politico, e sa bene che le sue ambizioni a fare il leader dei Paesi Poveri non possono spingersi fino a una dichiarazione unilaterale di moratoria: il Venezuela non ne ha la forza, nessun altro compagno di sventura lo seguirebbe. Sarebbe un crollo immediato, e non gioverebbe a nessuno. Per questo da Washington arrivano segnali di incoraggiamento, Bush promette 450 milioni di dollari, il Fmi accenna a tener conto della drammaticità di una crisi che rischia di farsi continentale. Oggi è domenica, un brutto giorno per sparare. Forse stasera conteremo meno morti. E domani sarà il giorno della verità. Mimmo Candito

Persone citate: Bush, Carlos Andrés Perez, Luis Fuenmayor, Perez, Puerto